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Il rapporto Mehlis coinvolge Damasco

Una guerra adesso? Meglio pensarci

Le prove diplomatiche contro la Siria ci sono, ma questa volta Bush è molto più prudente

di Antonio Picasso - 26 ottobre 2005

Da Bagdad a Damasco senza stop? La giustificazione diplomatica ci sarebbe, tuttavia, la strada sarebbe ben difficile da percorrere. Se non addirittura impossibile. Secondo le ricostruzioni della Commissione indipendente dell’Onu, presieduta da Detlev Melhis, che ha indagato sull’uccisione dell’ex premier libanese Rafik Hariri, almeno “sette ufficiali siriani e quattro libanesi sarebbero stati coinvolti nel progetto omicida”. Dal rapporto stilato, emerge che l’attentato sarebbe stato messo a punto durante una serie di incontri clandestini e un’attenta sorveglianza dei movimenti del primo ministro.

Di conseguenza, se i sospetti fossero fondati, sulla Siria penderebbe un’accusa internazionale di omicidio. Gli Stati Uniti hanno sempre incluso il Paese mediorientale nella lista del cosiddetto “Asse del male”, insieme a Iran e Corea del Nord. E non hanno mai nascosto i progetti di un eventuale intervento militare in loco. Sicché, con il rapporto Melhis, Washington disporrebbe di un valido supporto da parte delle Nazioni Unite, al quale si aggiunge, come si legge in una nota del Ministero degli Esteri francese, la recente presa di posizione francese antisiriana.

Un testimone siriano – si legge nel rapporto Melhis – ha affermato di avere lavorato per i servizi segreti di Damasco e ha dichiarato, inoltre, che nel settembre 2004, “alti responsabili siriani e libanesi avevano deciso di assassinare Rafik Hariri”. Parrebbe, allora, che un alto ufficiale della sicurezza libanese si sia recato diverse volte al Palazzo presidenziale e negli uffici di un alto funzionario della sicurezza siriana”. “L’ultimo meeting – ha raccontato ancora il testimone – è avvenuto nell’abitazione dello stesso funzionario circa giorni prima dell’assassinio”. A quest’ultimo incontro avrebbe partecipato anche un secondo funzionario dell’intelligence libanese. Zuhir Ibn Mohamed Said Saddik, un altro testimone poi diventato un sospettato, secondo quanto si legge sul rapporto “ha poi fornito dettagliate informazioni sul crimine alla Commissione”. Saddik, che dopo avere ammesso di aver partecipato all’ultima fase dei preparativi dell’attentato è stato arrestato, ha detto che “la decisione di assassinare Hariri è stata presa in Siria, a seguito di una serie di incontri clandestini in Libano tra alti ufficiali libanesi e siriani, i quali hanno disegnato un piano e preparato la strada per l’esecuzione dell’attacco”. Questi incontri, ha aggiunto Saddik, “erano iniziati nel luglio 2004, per proseguire nel dicembre dello stesso anno”. Saddik ha anche fornito importanti informazioni sull’autista che sarebbe stato assegnato al camion Mitsubishi imbottito di esplosivo, rubato in Giappone. Si sarebbe trattato di “un individuo iracheno a cui era stato lasciato credere che l’obiettivo fosse il primo ministro iracheno Iyad Allawi”, a Beirut proprio nel giorno dell’attentato. L’indagine ha messo in luce che otto numeri di telefono e dieci cellulari sono stati utilizzati per organizzare la sorveglianza di Hariri e portare a termine l’attentato. Secondo la commissione, Hariri era sotto sorveglianza già da un mese prima dell’esplosione e “non sarebbe stato difficile per persone esterne alla cerchia del primo ministro individuare con esattezza l’itinerario del suo convoglio il 14 febbraio”. Il convoglio di Hariri, il giorno dell’attentato, comprendeva anche tre automobili con il sistema jamming, capace di individuare a distanza la presenza di sospetti oggetti elettronici radiocomandati. E dall’inchiesta appare chiaro che, “al momento dell’esplosione, il sistema fosse operativo e funzionante”. Dubbi restano, invece, sul perché il dispositivo non abbia segnalato la presenza di alcun congegno esplosivo.

Il rapporto conclude che “la carenza di sostanziale collaborazione del governo siriano ha ostacolato l’indagine, rendendo complicata la ricostruzione sulla base delle prove raccolte da varie fonti”. “Se l’indagine sarà mai completata – è stato aggiunto – si renderà necessaria una completa collaborazione del governo siriano con le autorità investigative”.

A questo punto, sono facili le prime conclusioni. A differenza di quanto avvenne a cavallo tra il 2002 e il 2003, quando gli Stati Uniti ricorsero a tutti gli escamotage possibili per trovare delle prove contro il regime di Saddam, Washington ha qualcosa di concreto in mano. Il rapporto Melhis fa dell’Onu un valido appoggio per gli Usa. Perché così su Damasco pende un’accusa internazionale di omicidio e di tentativo di destabilizzazione di un governo straniero. Non si può eludere, quindi, una procedura Onu – una risoluzione, oppure, come auspica Bush un intervento militare, sebbene quest’ultima sia considerata l’ultima spiaggia. E non ha torto Bush a mettere le mani avanti. Perché se un attacco in Siria sarebbe logisticamente facile da cominciare, visto che le truppe Usa sono praticamente sul posto, resterebbe un mistero come terminarlo. Il numero di soldati morti in Iraq si sta avvicinando a quota duemila. Le risorse economiche che Washington ha messo a disposizione del Pentagono sono ingenti. In che modo, allora, Bush darebbe la notizia alla nazione di una nuova guerra?

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