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Un paese alla deriva

Una colpa per tre

Il governo non ha piu' credibilita' politica. Cosi' rischiamo di finire allo sfascio

di Enrico Cisnetto - 17 ottobre 2011

Un altro 14 dicembre. Solo che questa volta il voto di fiducia, portato a casa dal governo a “quota 316” contro i 314 di allora, era scontato. Nessun colpo di scena. Anzi, semmai i problemi li ha avuti il centro-sinistra, che si ritrova con la gatta da pelare dei radicali, verso i quali avere stizza significa misurare tutta la propria impotenza.

Questo non significa che Berlusconi e il suo esecutivo ne siano usciti vivi, tutt’altro. Ma se è per questo, erano politicamente morti anche prima dell’ennesima fiducia: lo sono da molti mesi, almeno da quando dovettero ricorrere ai cosiddetti “responsabili” per avere i numeri in parlamento. Tuttavia, si tratta di una condizione non sufficiente per voltare pagina, occorre andar sotto anche dal punto di vista numerico. Si dirà: ma è successo molte volte in aula, e anche per questioni di primaria importanza – o addirittura vitale, come il rendiconto di bilancio, che ora tornerà con qualche virgola cambiata al vaglio dei parlamentati – e non se n’è preso atto.

Vero. Ma ogni volta, alla controprova della fiducia il governo l’ha sempre sfangata. E non si può chiedere al Presidente della Repubblica, che per cause di forza maggiore è già andato oltre la linea di confine delle sue prerogative, di mandare a casa un governo non sfiduciato.

La verità, dunque, è che a uscire perdenti da questo ennesimo passaggio inutile della vita politica sono le opposizioni, o meglio quelle opposizioni che non hanno saputo fare altro in questi mesi che ripetere stancamente il ritornello quotidiano “Berlusconi si deve dimettere” e ogni tanto tentare di mandare al premier un “cartellino rosso” che il voto di fiducia ha puntualmente respinto al mittente. Ma non meno perdenti paiono quei “giovani” del Pdl e della Lega, che non avendo il coraggio di fare ciò di cui c’è prioritariamente bisogno per il bene del Paese – staccare la spina al governo e con esso alla Seconda Repubblica – finiscono col precludersi ogni possibilità di giocare una partita nel “dopo” che inevitabilmente e inesorabilmente arriverà, purtroppo per mano di una crisi economica europea che renderà al “dopo” la vita maledettamente più difficile di quanto già non sia.

Sulle opposizioni il ragionamento è presto fatto: se al di là delle fantasie esistesse davvero una qualche formula per portare a compimento la legislatura senza Berlusconi, la sfiducia ci sarebbe già stata o ci sarebbe domattina. Se così non è stato e continua a non essere, pur in una situazione di inequivocabile decesso politico del governo e del suo premier – analisi che non trova un contestatore nel Pdl e ne trova ben pochi nella Lega, ma rigorosamente in privato – è perché manca una qualsiasi alternativa che non siano le elezioni anticipate, che non sono gradite a nessuno ma prima di tutto non lo sono al Pd.

Il governo di “responsabilità nazionale”, infatti, è stato approcciato dalle varie anime dei democratici, peraltro impegnate in una lotta fratricida, in modo assolutamente strumentale, perché è evidente che se mai la prospettiva si facesse concreta, le ali del centro-sinistra, quella giustizialista e quella massimalista, sarebbero tagliate fuori, e questo metterebbe in moto rese dei conti interne tra chi si riconosce nella “fotografia di Vasto” – Bersani, Vendola e Di Pietro raffigurati come i tre pilastri del nuovo Ulivo – e chi invece vuole un’alleanza al “centro” con il Terzo Polo. Viceversa, Bersani sa bene che andare alle elezioni significherebbe due cose: sciogliere subito quel nodo delle alleanze fin qui rinviato; rischiare di fare la fine di Occhetto, che nel 1994 partì con un enorme margine di vantaggio e la sicurezza (sicumera) di vincere, e poi si ritrovò sconfitto dal debuttante Berlusconi.

Se a questo si aggiunge che le opposizioni non sono riuscite a raggiungere uno straccio di convergenza su una legge elettorale alternativa al porcellum e il Pd si è dovuto accodare al referendum pro ritorno del mattarellum – avendo nel frattempo sciaguratamente affossato quello promosso da Passigli pro sistema tedesco – e quindi si ritroverebbero nel caso di un governo che deve portare a termine la legislatura o anche solo portare al voto, e dunque con il compito primario di cambiare il sistema elettorale, a non sapere che pesci prendere, e invece nel caso di elezioni anticipate cui ci porterebbe lo stesso Berlusconi, a dover affrontare le medesime con la legge attuale.

Una prospettiva negativa nell’uno come nell’altro caso. Di qui l’empasse che rende lampante il fatto che tanto più il governo appare finito, tanto più è chiaro che se continua a prendere la fiducia è perché chi dovrebbe farlo fuori (con facilità, vista la massima decozione) ma non riesce a sua volta è annientato dalle sue contraddizioni irrisolte, che cerca di esorcizzare aumentando il proprio tasso di anti-berlusconismo. Cosa che rende sempre meno probabile l’alternativa di governo e quella elettorale dopo. Ma sarebbe ingiusto dare la colpa solo alla sinistra. Essa va equamente divisa con i tanti che nel centro-destra pensano e lavorano (?) – non da oggi, peraltro – al “dopo Berlusconi”. Alfano e Maroni, in primis, ma non solo. Tutti i pidiellini giovani e meno giovani aspiranti a diventare la classe dirigente del domani avendo la frustrazione di non essere quella dell’oggi, pur magari essendo ministri o comunque avendo ruoli di rilievo, si sono fatti l’idea che Berlusconi si ritirerà e lascerà loro in eredità quel 20-25% di voti cui ancora il Pdl è accreditato. Calcolo sbagliato.

Perché o il Cavaliere cade pesantemente ed è costretto a lasciare la scena, e allora quell’eredità rischia di dissolversi – i voti sono stati e fino a prova contraria continuano ad essere di Berlusconi, non del (inesistente) partito – oppure Berlusconi è ancora padrone del suo destino, e allora non lascerà mai il bastone del comando a nessuno, 2012 o 2013 che sia. Pensare il contrario, ragionando sulla sua età, significa non conoscere l’uomo e non aver capito la vera cifra dell’elezione (si fa per dire) di Alfano a segretario del Pdl.

Non è un caso che l’unica cosa rilevante dell’inutile e tedioso discorso del premier in parlamento per il voto di fiducia sia stato “o me o le elezioni”. E non è un caso che chi nel Pdl aveva fatto intendere che avrebbe potuto staccare la spina, per l’ennesima volta non lo abbia fatto.

Se a questo si aggiunge che il colpo di coda capace di produrre l’agognata discontinuità non è arrivato neppure dall’interno della Lega nonostante che l’arroganza di Bossi e dei suoi accoliti abbia raggiunto livelli inauditi (il caso Varese è uno dei tanti, chiedere conferma al sindaco di Verona Tosi), ecco disegnato il desolante quadro di un tramonto, quello della stagione politica intestata al trinomio Berlusconi-maggioritario-bipolarismo, che non finisce mai. A tutto danno dell’Italia.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.