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Il problema non è penale, ma politico e istituzionale

Una classe dirigente “tacciata”

Un Paese senza giustizia è destinato a veder espandersi la corruzione endemica

di Davide Giacalone - 25 febbraio 2010

La corruzione non è un male della sola politica, ciò non autorizza, però, a generalizzare ed estenderla a tutti. E’, in gran parte, un problema della classe dirigente, di chi, per fortuna o per merito, ai vari livelli, accede a posizioni di responsabilità e discrezionalità. Ed è un problema di cultura, perché il corpo civile risponde tardi, male e a casaccio proprio quando decadono gli anticorpi etici, che sono prima di tutto culturali.

Ci sono cuori candidi che hanno taciuto nel mentre noi denunciavamo colossali sottrazioni di ricchezza pubblica, che, anzi, firmavano qualche alato pezzullo nella pagina accanto a quella da cui ci sparavano addosso. Ora scoprono che c’è una piaga diffusa. Meglio tardi che mai, però c’è qualcosa di stucchevole, nella discussione. Che la distinzione fra “società civile” e “società politica” fosse un alibi immorale, lo scrivevo trenta anni fa. Che gli appalti pubblici non funzionano e la deroga è divenuta la regola, distorcendo l’intero sistema, lo abbiamo scritto prima che giungesse notizia dell’ennesima inchiesta (segnalando, oltre tutto, che prima o dopo sarebbe arrivata).

Che un Paese senza giustizia è destinato a veder espandersi la corruzione endemica, lo sostenevamo nel mentre gli altri si sbracciavano ad invocare il dialogo con quella magistratura politicizzata che la riforma della giustizia non la vuole manco per niente. Insomma, scusate, ma tanto slancio d’autocoscienza collettiva somiglia troppo al fervore con cui si può parlare d’amore e verginità in un postribolo: con consolidata esperienza, ma scarsa coerenza. Allora, ripetiamolo: il problema non è penale, ma politico e istituzionale.

Scandagliando la natura italica ci trovate Arlecchino e Pulcinella, il furbastro autocommiserante e profittatore non ha confini vernacolari, ma il guaio nostro, oggi, non è genetico, ma contingente: s’è squagliata la classe dirigente. Leggo quotidianamente, maniacalmente, le cose che dicono industriali, finanzieri, politici, intellettuali, editorialisti, e ne ho, nel complesso, un’impressione sconfortante. Dominano la faziosità estrema, mescolata ad un profittare miope, immediato, senza respiro.

Prendete questioni importanti, come la rete di telecomunicazioni, o i 150 anni dall’Unità d’Italia, o il mercato del lavoro, e avete la sgradevole sensazione che chi parla non pensa, o non pensa con un orizzonte superiore alle ventiquattro ore.

Ora va di moda la corruzione. E sia. Si parte rullando i tamburi e annunciando il decreto e si arriva fischiettando e impostando un disegno di legge, a futura memoria. Guardiamo la sostanza: più aumentano i controlli formali, più sono i vigili urbani, i finanzieri, i carabinieri, i poliziotti e i magistrati incaricati di stabilire se una fontana è stata fatta a regola d’arte e più aumenta la corruzione. Se, invece, s’impone la concorrenza a monte, facendo gareggiare tutti quelli che si candidano a realizzare l’opera, e si prevede il controllo a valle, verificando che non sia costata un euro in più e non sia stata consegnata con un giorno di ritardo, non si elimina la corruzione, così come non si eliminano le piattole, ma se ne riduce la convenienza e si aumenta la propensione alla denuncia.

Se cerco di mettere le briglie al desiderio d’arricchimento, presto me le ritrovo attorno al collo, oppure a legar le mani di qualche funzionario onesto. Se, invece, lo sfrutto, quel desiderio, e lo rendo possibile entro regole certe, sarà l’egoismo degli astanti ad aiutarmi nel farle rispettare.

Passiamo alla politica: fuori i corrotti. Ogni volta che qualcuno lo dice, e, da ultimo, Silvio Berlusconi, noi facciamo osservare che trattasi di pia illusione o presa in giro, quando va bene. In quattro giorni ci hanno dato ragione. Perché: se il corrotto è il condannato, allora ci vuole la giustizia che funzioni, e se il corrotto è l’accusato, allora consegniamo il governo alla magistratura e non se ne parli più.

Gianfranco Fini si è spinto oltre: chi è condannato, in via definitiva, per reati contro la pubblica amministrazione, non si candidi per almeno cinque anni. Accipicchia, hanno scoperto la legge! Si chiama: interdizione dai pubblici uffici, ed è già una pena accessoria. Rendiamola obbligatoria, si replicherà. Ma sì, aumentiamo le pene. E’ la ricetta sacra di chi non sa che dire e che fare.

Riflettano, su un punto: se per punire il politico gli proibisco di candidarsi è perché, altrimenti, lo eleggerebbero? In questo caso sto espropriando gli elettori, non il candidato. Mi sorge un dubbio: non è che la legge serve a salvare i vertici dei partiti, perché certi corrotti sono anche potenti, sicché costringono i capi a candidarli, dato anche che i due potentissimi partiti unici non sono stati in grado, nessuno dei due, di scegliersi un candidato in Puglia? Eccolo qua, il nocciolo: il nostro problema è la debolezza della politica, che annaspa nei salamelecchi senza sostanza.

La moda prossima ventura, difatti, saranno le “riforme condivise”. Anche noi abbiamo sostenuto che, dopo le regionali, è necessario cambiare registro, chiedendo all’opposizione di convergere su riforme importanti e profonde. Ma il dovere di chi parla è dire quali. Sui contenuti si allargano gli schieramenti, ed è un bene. Ma se si determinano i contenuti sulla base degli schieramenti desiderabili ci si ritrova con una politica insipiente e inconcludente. Nella quale s’accomodano i tanti che hanno le idee chiare, su quali siano gli interessi che contano: i propri.

Pubblicato da Libero

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