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Lo strabismo elettorale

Una campagna all’acqua di rose

Nessuno affronta il tema della crisi strutturale italiana né parla di una possibile recessione

di Enrico Cisnetto - 29 febbraio 2008

L’euro sopra il massimo storico di 1,5 sul dollaro. Il petrolio che sfonda quota 100 dollari al barile, candidandosi a costarci nel 2008 mediamente un terzo in più di quanto lo abbiamo pagato l’anno scorso. Le previsioni più ottimistiche che ci assegnano una crescita del pil per quest’anno di pochi decimi di punto sopra lo zero, mentre quelle più realistiche parlano ormai di recessione. Lo spread con i bund tedeschi dei nostri titoli di Stato, già da tempo in rialzo, che ora ha raggiunto i 44 punti base (top dal 2001), segnale tra i preoccupanti che i mercati internazionali considerano il “rischio Italia” in aumento. Il tutto avendo sullo sfondo uno scenario mondiale in cui la crisi finanziaria innescata dallo sgonfiamento della bolla immobiliare, e la conseguente discesa dei corsi borsistici, fa temere un rallentamento dello sviluppo planetario (recessione negli Usa, crescita quasi zero in Europa), o un suo dipendere esclusivamente dall’Asia, che diventerebbe così la nuova locomotiva dell’economia globale.

Queste poche note riassumono la congiuntura economica nella quale ci troviamo. Essa, a sua volta, si colloca nel contesto di un “declino italiano” che dura da almeno 15 anni e che tende a rendere strutturale anche i fenomeni più volatili. Avete forse qualche sentore di tutto questo nella campagna elettorale ormai avviata? Ci sono leader che s’interrogano sulla complessità del quadro che chiunque vinca si troverà di fronte dopo le elezioni? Neppure i media e gli opinion leader, salvo qualche rara eccezione, sono interessati a sollecitare il confronto politico su questi temi di fondo. Si dirà: è normale che per la ricerca del consenso si usino messaggi semplificati e si cerchi di non spaventare gli elettori. Vero, anche se sarebbe altrettanto normale poter intravedere dietro agli slogan analisi un po’ più sofisticate, e che a queste ultime ci si attenesse nella selezione della classe dirigente. Eppure, qualcuno ha detto che dietro la prudenza con cui si starebbe muovendo Berlusconi – riassumibile nel concetto: possiamo vincere solo noi o il Pd, e comunque vada dopo bisognerà “collaborare” – è leggibile la preoccupazione di ritrovarsi a palazzo Chigi senza la forza, le idee e gli strumenti (a cominciare dagli uomini) che sono necessari per evitare che la barca affondi. E altri hanno letto in Veltroni il desiderio di accorciare la forbice del distacco tra Pd e Pdl per mettersi nella condizione di offrire al Cavaliere una sorta di patto di legislatura, e non solo sulle questioni istituzionali e della legge elettorale. Insomma, nessuno affronta il tema della crisi strutturale italiana – economica e non solo – nessuno evoca lo spettro di una grave recessione, che avrebbe gravi conseguenze sulla tenuta sociale e sulla finanza pubblica, ma tutti terrebbero in caldo la possibilità di una grande coalizione.

Magari. I lettori di questa rubrica sanno quanto io abbia suonato questo tasto, di come consideri indispensabile, ineludibile, un passaggio politico di unità nazionale tra riformisti e moderati che consenta a quelle due componenti della classe politica – finora costrette del bipolarismo coatto ad essere divise, anzi nemiche – di assumersi in solido la responsabilità delle scelte impopolari (o presunte tali) che sono necessarie al Paese. Ma siamo sicuri che questi due “partiti non partiti”, che questi leader che tutto sono meno che nuovi (nel senso di non logorati dai risultati di governo, del Paese come della Capitale, fin qui conseguiti), che questi programmi all’acqua di rose che dipingono un paese che non c’è, siamo sicuri che siano gli strumenti giusti per fare un governo di salvezza nazionale e non un brutto inciucio di potere? L’impostazione della domanda tradisce la risposta: io non ci credo. Anzi, per la verità io non credo neppure che la grande coalizione, bella o brutta che sia, si faccia, salvo il (solo) caso che l’eventuale attribuzione all’una forza della Camera e all’altra del Senato non costringa alla coabitazione.

Per essere credibile, questa dovrebbe essere una scelta politica, non uno stato di necessità. E come tale, andrebbe proposta ai cittadini. Ricordo che l’idea del “compromesso storico” nacque quando Dc e Pci assommavano oltre i due terzi delle forze parlamentari, e che intorno a quell’ipotesi si agitò un dibattito politico intensissimo. Oggi il primo che ne accenna fugacemente il giorno dopo smentisce, per paura di perdere voti. Pensate cosa succederebbe se Veltroni e Berlusconi decidessero di recarsi insieme a Napoli, e solcando qualche marciapiedi ricolmo di spazzatura, dicessero all’unisono “noi prendiamo solenne impegno che, qualunque sia l’esito del voto e qualunque governo si formi dopo, affronteremo di comune accordo il problema dei rifiuti e insieme lo risolveremo anche a costo di imporre a quei cittadini che fin qui hanno protestato, occupando strade e persino scontrandosi con le forze dell’ordine, le scelte degli strumenti necessari (discariche, inceneritori, termovalorizzatori) e le loro ubicazioni”. Questo gesto, normale in qualunque altro sistema politico, da noi, dopo 15 anni di bipolarismo armato, avrebbe una carica dirompente, sarebbe la certificazione che si è davvero voltato pagina, che si vuole sul serio recuperare la sfiducia e l’antipolitica.

Ma così non è. E ci si avvia a conquistare palazzo Chigi con beata superficialità di chi non capisce in che guaio si sta mettendo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.