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Di Ricucci se ne conoscono i gossip, e il resto?

Un sogno italiano. Sbagliato e mediocre

Le manette all'odontotecnico di Zagarolo suonano il de profundiis sulla "razza mattona"

di Alessandro Marchetti - 19 aprile 2006

Non ce l’ha fatta Stefano Ricucci. La favola dell’odontotecnico di Zagarolo che sognava di scalare le montagne Rcs, è svanita nel pomeriggio di martedì. Con lui se ne va, per ora, di scena il primo di quei capitani coraggiosi che in questi anni hanno incarnato lo spirito del capitalismo più straccione.
Una generazione di yuppie, quella dei Ricucci, dei Coppola e degli Statuto, che insegna agli italiani come fare quattrini con i propri mattoni; quelli che, gelosamente, ognuno di noi custodisce per i proprio figli. Una storia che forse conosciamo abbastanza.
O forse no. La verità è che noi italiani siamo gente strana. Quando scoppiò il caso Rcs, nel giugno scorso, sembrava quasi che, fra un gossip e l’altro, l’italiano medio riuscisse a riflettere un poco.
Non che le vacanze di milioni di connazionali, così attaccati ai riti dell’estate e all’epopea briatoriana, sceneggiata tra gli yacht di Porto Cervo e Forte dei Marmi, potessero di colpo traghettare coscienze e mentalità: tuttavia, più di un osservatore ha auspicato che la vicenda di Ricucci & C., proprio grazie all’accanimento mediatico sui protagonisti più chiacchierati della scalata, i famosi “furbetti”, potesse influire sugli orientamenti degli italiani, piccoli grandi risparmiatori.
Non una psicosi collettiva, o il rigetto pregiudiziale e diffuso verso oscuri personaggi, ma una riflessione più attenta e profonda sulla crisi del capitalismo italiano. Insomma, la speranza che ciò che è stato, in fondo, un fenomeno di costume oltre che una vicenda economica e politica, non si riducesse ad un banale tormentone estivo. Così non è stato.
Alzi la mano chi negli ultimi tre mesi ha avuto notizie dell’immobiliarista d’assalto, Stefano Ricucci. Televisione, quotidiani, periodici, nei mesi seguenti la sventata scalata al Corsera e al suo gruppo editoriale, hanno accuratamente documentato la vicenda. Eppure sui furbetti del quartierino e sulle fortune della generazione dei neopalazzinari, si è fatto molto giornalismo d’inchiesta.
Tuttavia, si ha l’impressione che la caduta in miseria del simbolo di una stagione rimanga confinato al più come un fatto da pagina rosa. Materia per chi fra gli addetti ai lavori, già corre a fare le sue belle dichiarazioni innocentiste; tutto un rincorrersi dei “te l’avevo detto” ,“l’ho sempre sostenuto” e via dicendo. Pochi invece, a mio avviso, coloro che possono davvero avere voce in capitolo in questa faccenda. E in più il solito (dis)servizio pubblico, offerto in questi mesi dai media italiani.
Come mai nei grandi organi di stampa, ma soprattutto nei templi dell’approfondimento, sono passati solo i pettegolezzi sulla Falchi e le sue velleità di produttrice? Di questo, se si chiede per strada, si sa; non di certo dei pegni e delle ipoteche sulle proprietà di chi è stato tratteggiato come il paladino dello yuppismo all’amatriciana.
Giovani intraprendenti, abili a quanto pare solo a falsificare bilanci e far debiti. Sarà, ma su questa vicenda personale finita male, l’arresto di Ricucci appunto, sembrano incrociarsi magicamente i destini e le sfortune di più di un sistema. Con in più, "tic" dei personaggi tipicamente italiani. Basti pensare al fatto che il gruppo Magiste di Ricucci, a dispetto delle assicurazioni del titolare, non abbia mai fatto il suo ingresso in Borsa, come più di un esperto aveva auspicato. Ossia che l’odontotecnico venuto dall’hinterland svuotasse i garage di casa e portasse i registri allo scoperto, presentando al mercato e alle autorità quel magnifico mondo fatto di fiduciarie e di finanziarie fantasma. Ecco, in questo scenario il nome Ricucci potrebbe benissimo essere sostituito dal nome Sindona. Se non fosse che il nostro raider “de noantri” vive a Roma e invece di banche ha maneggiato palazzi e caseggiati. Risorse per cui ci sono, anche oggi, ben altri mostri sacri a cui ispirarsi. O semplicemente sarebbe più utile chiedersi perché, nel 2006, il bel Paese pullula di miliardari alla Coppola e alla Ricucci, fabbricanti di soldi, direttamente usciti da film come Wall Street, invece che geniali imprenditori alla ricerca di una buon idea.
Non si tratta di difendere questo o quel salotto, magari per capire di chi in fondo è stato vittima il nostro sfortunato finanziere; la considerazione amara che questa storia ci strappa dovrebbe fungere da grido d’allarme, ossia che il Sistema-Italia sa produrre solo speculatori e bancarottieri. Che ci piaccia o no, le manette a Ricucci e la coda di finanzieri nei suoi uffici della Magiste, rappresentano il fallimento della famigerata "razza mattona": un’altra mediocre storia italiana.

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