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L’ipotesi antidoto del terzo polo bancario

Un sistema capitalistico simmetrico

Come conciliare gli interessi dei giganti e dei nani nel gioco del risiko bancario

di Enrico Cisnetto - 01 giugno 2007

Prima l’intervista al Sole 24Ore di Giovanni Bazoli – che passerà alla storia perchè per la prima volta ha perso le staffe – in cui si evocavano i presunti conflitti d’interesse di Unicredit-Capitalia in Mediobanca e Generali. Poi, sempre sullo stesso giornale, un fondo del bocconiano doc Guido Tabellini, che tra proprietà impropria, riorganizzazione interna mal riuscita e riduzione del profilo di Direttorio e Ufficio studi, ha dipinto un quadro della Banca d’Italia di oggi tanto impietoso quanto ingiustificato. Insomma, alla vigilia dell’assemblea della banca centrale, il Governatore Mario Draghi è stato vistosamente tirato per la giacca, con tutta probabilità nel tentativo di indurlo, nella sue “considerazioni finali”, a fischiare qualche presunto fallo in zona Profumo-Geronzi.
Intenzione non riuscita, visto che ieri Draghi non solo ha lodato quei presidenti e quegli amministratori delegati che, in piena autonomia, hanno realizzato l’ultimo risiko bancario, ma ha anche fatto un riferimento a conflitti d’interesse da sciogliere e intrecci tra banche e politica da evitare che ovviamente valgono per tutti ma che di certo non erano rivolti ai protagonisti dell’ultima grande fusione. Un atteggiamento, quello del Governatore, che ha indotto lo stesso presidente di Sanpaolo-Intesa a ritrovare il suo abituale aplomb nel dichiarare, a caldo, che quella intervista ha generato “equivoci” mentre lui vede “positivamente la fusione Unicredit-Capitalia” perchè crea maggiore concorrenza nel sistema bancario, e auspica che “si smetta di parlare di contrapposizione, quasi di conflittualità tra noi e Unicredit”.

Bazoli, poi, è ben attento a non citare mai Mediobanca in tema di conflitto di interessi e a dire che la sua banca è “disponibile a sciogliere” legami impropri. Bene. Se il “bipolarismo bancario”, come è stato definito l’assetto del sistema creditizio dopo che i quattro maggiori istituti sono diventati due, dimostra di essere maturo, e non muscolare come quello politico, tanto di guadagnato. Il mondo finanziario è stato segnato da fin troppi conflitti, non abbiamo bisogno di altre guerre. Anche perchè il vero tema, finora del tutto assente dal dibattito, è quello di come conciliare, da un lato un panorama bancario un in cui ormai – per fortuna – agiscono giganti con sempre maggiore propensione internazionale, e dall’altro un assetto produttivo e terziario ancora popolato di nani, abituati nel bene e nel male ad un rapporto di territorio, per non dire di campanile, con il credito. Una asimmetria che richiede un ripensamento della tradizionale vocazione familiare del nostro capitalismo – Draghi ne ha parlato facendo riferimento al ruolo del private equity – che non può certo giovarsi di una concorrenza che sconfina nelle lotte di potere e che usa la politica come strumento per vincerle. Ma il pericolo non può certo dirsi scampato. In questi giorni l’ipotesi di “terzo polo” – che in sé sarebbe un ottimo antidoto alla degenerazione bipolare, come dovrebbe essere anche in politica e finora disgraziatamente non è stato – è parsa assumere più i contorni di un “esproprio” di uno dei due poli maggiori che quelli sani di una maggiore articolazione concorrenziale, come potrebbe essere, per esempio, un ulteriore aggregazione nel mondo, già positivamente in fermento, delle popolari. E la stessa questione dei conflitti da intrecci azionari è stata posta in modo unilaterale, mentre richiederebbe un approccio più laico e meno strumentale (qui Draghi farebbe bene ad essere manifestatamente più “entrista”, come ha fatto assai bene Antonio Catricalà dalla tolda dell’Antitrust).

Diciamo la verità: o le due banche azioniste di Mediobanca erano in conflitto anche prima della loro fusione – ma nessuna autorità ha mai fatto alcuna obiezione – oppure il fatto che Unicredit e Capitalia siano diventate una cosa solo, sommando le loro quote di partecipazione nella banca d’affari fondata da Enrico Cuccia, non toglie e non aggiunge nulla. Anche perchè il patto di sindacato di Mediobanca è costruito come somma di tre sottopatti, ed è l’equilibrio tra di essi che le regole di governance intendono salvaguardare. Voglio dire che la decisione annunciata dal duo Profumo-Geronzi di dimezzare dal 18% al 9% la presenza in Mediobanca va considerata non un obbligo, ma un segno di disponibilità e apertura. E ancor di più va giudicata in questo modo l’annunciata intenzione di cedere l’intero pacchetto azionario detenuto in Generali. Una generosità che non meritava l’inusuale stizza di Bazoli, cui semmai spetta il compito di trovare la soluzione in casa propria al conflitto – questo sì denunciato formalmente dall’Antitrust – tra la Eurizon di provenienza Sanpaolo e il doppio intreccio Intesa-Generali, sia quello di Trieste azionista dell’istituto presieduto da Bazoli che quello dell’accordo di bancassurance. Dunque, si può finalmente aprire una discussione serena e costruttiva, nelle sedi proprie, sul futuro di Mediobanca e di Generali, tutelando i loro soci ma anche tenendo in debito conto l’interesse generale, che coincide con la valorizzazione di asset decisivi per lo sviluppo e la modernizzazione del nostro asfittico capitalismo? Sono sicuro che Cuccia, da quell’aldilà in cui non si è portato stock options milionarie, fa voti perchè le sue creature trovino finalmente pace e sicurezza.

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