Evitiamo al Paese l’ennesima sciagura
Un referendum da boicottare
Non illudiamoci. L’ipotesi bipartitica è tramontata politicamente prima ancora di nasceredi Paolo Arsena - 21 maggio 2009
Non ci piace riproporre il desueto cliché del rischio di un “regime autoritario”, dal momento che, dopo un quindicennio che ha visto la stella berlusconiana nascere, crescere e dominare, rispettiamo la volontà di un elettorato che non possiamo superficialmente liquidare come “manipolato” o “incosciente”.
Ma quando il rischio effettivo di un regime autoritario viene propiziato e alimentato da un folto gruppo di oppositori di Berlusconi, il grido d’allarme s’impone, se non altro per mettere all’indice i miopi in buonafede, gli opportunisti senza scrupoli e gli stolti. E anche per evitare che l’elettorato avverso al Cavaliere sia tentato di seguire acriticamente le indicazioni dei propri referenti.
È ciò che accade con questo referendum, sostenuto da un’intesa trasversale tra i due maggiori partiti italiani, a rimorchio di Mariotto Segni e del professor Guzzetta. Dov’è il problema? Risiede in un insidioso quesito che vorrebbe assegnare il premio di maggioranza non “al partito o alla coalizione che ottiene più voti”, come avviene oggi, ma soltanto “al partito che ottiene più voti”.
Inutile fare una prima banale osservazione, dicendo che oggi non c’è gara: l’unico partito in grado di beneficiare del premio di maggioranza è il PdL, e questo referendum gli regala una supremazia incontrastata, incontrastabile e perpetua.
Ma questo non basta a spiegare, dal momento che i referendari obiettano (qui sì in assoluta malafede), che l’effetto-referendum è neutro, poiché anche oggi Berlusconi, presentandosi solo col suo partito, può ottenere il premio. Vero, ma peccato si tratti solo di una mezza verità, che omette la parte cruciale del ragionamento:
col sistema odierno resta sempre la possibilità di opporre al PdL una coalizione vincente, che sarebbe in grado di prendere il bonus per governare; domani, se passa il referendum, non più.
Le coalizioni non avranno più valore, e ogni partito sarà nudo, coi propri semplici voti, a contrastare la dimensione gigantesca del PdL. E guardiamoci attorno: l’unico a poter competere con un partito che vale il 40%, è il PD, oggi accreditato attorno al 25%. Come si può pensare ad una vera gara elettorale? Sorvoliamo poi sull’enormità degli effetti collaterali delle modifiche referendarie, che imporrebbero sbarramenti tali da lasciare fuori dal Senato partiti che contano più dell’8%...
Naturalmente l’obiettivo ultimo dei Guzzetta-boys è quello di obbligare al bipartitismo. È un approccio ideologico fuori dalla realtà, e a ben vedere poco democratico, visto che alla luce dei fatti non è stato assecondato dall’elettore. L’ipotesi bipartitica è tramontata politicamente prima ancora di nascere, malgrado tutte le forzature tecniche ed elettorali perpetrate finora.
Perché esiste un centro, perché Lega e Italia dei Valori contano molto più di prima e perché, a fronte di un centrodestra coeso attorno alla figura carismatica del Cavaliere, il centrosinistra ha dimostrato, dal ’94 ad oggi, di rappresentare due o tre visioni politiche differenti e incompatibili.
Lo si è visto ieri al governo, quando non ha mai saputo tenere in piedi un esecutivo per due anni consecutivi (quattro governi in cinque anni nella XIII Legislatura, un governo caduto dopo un anno e mezzo nella scorsa); lo si vede oggi nelle alleanze, dove non c’è uno straccio di unitarietà per il futuro. Sinistra radicale, Di Pietro, PD: sono tutti contro tutti.
In questo senso, il referendum opera una terapia sbagliata, con un accanimento che, lungi dal risolvere una divergenza che è esclusivamente politica e culturale, avrà il solo effetto di dare il colpo di grazia al malato, cioè la sinistra, che si ritroverà impotente. Indebolendo nel contempo la democrazia, che rischierà a lungo di non beneficiare più di un’alternanza al governo. La storia stessa del PD, che nasce su questo solco, dovrebbe insegnare qualcosa: un partito concepito per rappresentare la metà degli italiani, ha invece reso la sinistra debolissima e consegnato il Paese al Cavaliere.
Parisi, Bordon, Bassolino, Boato, Bresso, Bobba, Cacciari, Chiamparino, Garavaglia, Melandri, Realacci sono alcuni tra i noti esponenti estranei alla maggioranza, che promuovono il referendum. Ci si chiede come mai tanti politici del PD a sostegno di una proposta così controproducente: la risposta è amara, e risiede nel fatto che, pur di incassare qualche voto in più e tenere in piedi un progetto malnato e malsano, c’è chi è disposto a consegnare per sempre l’Italia al nemico.
D’altronde si guardi anche l’atteggiamento tenuto dal premier sulla questione. Conscio di essere l’unico ad acquisire dal referendum un beneficio determinante, ha preferito non esporsi in suo favore, lasciando che la ghiotta occasione gli venisse offerta dall’avversario, evitando così di instillare nell’elettore sospetti che potessero pregiudicarne l’esito.
Suo malgrado, poi, sotto il ricatto della Lega ha dovuto fissare una data scomoda per la consultazione. Ma quando è stato interpellato a riguardo non ha esitato e si è lasciato sfuggire: “Certo che voto, e voterò sì. Non sono masochista!”. Sono anni che Mario Segni e Arturo Parisi manomettono regole e assetti secondo i loro rigidi schemi, a colpi di referendum. Sono anni che anche per questo il sistema politico italiano soffre di leggi elettorali deformi e inadeguate.
È innegabile che il parlamento non sia stato ancora capace di scrivere buone regole, ma quel che è sicuro è che il popolo, chiamato a decidere con quesiti di incidenza parziale e su una materia squisitamente tecnica e dannatamente complessa, può soltanto fare di peggio. Come noto, poi, l’istituto referendario racchiude una trappola per i dissenzienti che, a differenza dei sostenitori, si dividono tra chi si si astiene e chi va a votare “no”, lasciando il responso dell’urna sempre a vantaggio del “sì”.
Non resta quindi che il boicottaggio, affinché il quorum non venga raggiunto. Il weekend del 20-21 giugno passiamolo in campagna: non avremo il rimpianto di perdere l’occasione di una bella gita, e saremo contenti di aver evitato al Paese l’ennesima sciagura.
*portavoce del Forum per l’Unità dei Repubblicani
Ma quando il rischio effettivo di un regime autoritario viene propiziato e alimentato da un folto gruppo di oppositori di Berlusconi, il grido d’allarme s’impone, se non altro per mettere all’indice i miopi in buonafede, gli opportunisti senza scrupoli e gli stolti. E anche per evitare che l’elettorato avverso al Cavaliere sia tentato di seguire acriticamente le indicazioni dei propri referenti.
È ciò che accade con questo referendum, sostenuto da un’intesa trasversale tra i due maggiori partiti italiani, a rimorchio di Mariotto Segni e del professor Guzzetta. Dov’è il problema? Risiede in un insidioso quesito che vorrebbe assegnare il premio di maggioranza non “al partito o alla coalizione che ottiene più voti”, come avviene oggi, ma soltanto “al partito che ottiene più voti”.
Inutile fare una prima banale osservazione, dicendo che oggi non c’è gara: l’unico partito in grado di beneficiare del premio di maggioranza è il PdL, e questo referendum gli regala una supremazia incontrastata, incontrastabile e perpetua.
Ma questo non basta a spiegare, dal momento che i referendari obiettano (qui sì in assoluta malafede), che l’effetto-referendum è neutro, poiché anche oggi Berlusconi, presentandosi solo col suo partito, può ottenere il premio. Vero, ma peccato si tratti solo di una mezza verità, che omette la parte cruciale del ragionamento:
col sistema odierno resta sempre la possibilità di opporre al PdL una coalizione vincente, che sarebbe in grado di prendere il bonus per governare; domani, se passa il referendum, non più.
Le coalizioni non avranno più valore, e ogni partito sarà nudo, coi propri semplici voti, a contrastare la dimensione gigantesca del PdL. E guardiamoci attorno: l’unico a poter competere con un partito che vale il 40%, è il PD, oggi accreditato attorno al 25%. Come si può pensare ad una vera gara elettorale? Sorvoliamo poi sull’enormità degli effetti collaterali delle modifiche referendarie, che imporrebbero sbarramenti tali da lasciare fuori dal Senato partiti che contano più dell’8%...
Naturalmente l’obiettivo ultimo dei Guzzetta-boys è quello di obbligare al bipartitismo. È un approccio ideologico fuori dalla realtà, e a ben vedere poco democratico, visto che alla luce dei fatti non è stato assecondato dall’elettore. L’ipotesi bipartitica è tramontata politicamente prima ancora di nascere, malgrado tutte le forzature tecniche ed elettorali perpetrate finora.
Perché esiste un centro, perché Lega e Italia dei Valori contano molto più di prima e perché, a fronte di un centrodestra coeso attorno alla figura carismatica del Cavaliere, il centrosinistra ha dimostrato, dal ’94 ad oggi, di rappresentare due o tre visioni politiche differenti e incompatibili.
Lo si è visto ieri al governo, quando non ha mai saputo tenere in piedi un esecutivo per due anni consecutivi (quattro governi in cinque anni nella XIII Legislatura, un governo caduto dopo un anno e mezzo nella scorsa); lo si vede oggi nelle alleanze, dove non c’è uno straccio di unitarietà per il futuro. Sinistra radicale, Di Pietro, PD: sono tutti contro tutti.
In questo senso, il referendum opera una terapia sbagliata, con un accanimento che, lungi dal risolvere una divergenza che è esclusivamente politica e culturale, avrà il solo effetto di dare il colpo di grazia al malato, cioè la sinistra, che si ritroverà impotente. Indebolendo nel contempo la democrazia, che rischierà a lungo di non beneficiare più di un’alternanza al governo. La storia stessa del PD, che nasce su questo solco, dovrebbe insegnare qualcosa: un partito concepito per rappresentare la metà degli italiani, ha invece reso la sinistra debolissima e consegnato il Paese al Cavaliere.
Parisi, Bordon, Bassolino, Boato, Bresso, Bobba, Cacciari, Chiamparino, Garavaglia, Melandri, Realacci sono alcuni tra i noti esponenti estranei alla maggioranza, che promuovono il referendum. Ci si chiede come mai tanti politici del PD a sostegno di una proposta così controproducente: la risposta è amara, e risiede nel fatto che, pur di incassare qualche voto in più e tenere in piedi un progetto malnato e malsano, c’è chi è disposto a consegnare per sempre l’Italia al nemico.
D’altronde si guardi anche l’atteggiamento tenuto dal premier sulla questione. Conscio di essere l’unico ad acquisire dal referendum un beneficio determinante, ha preferito non esporsi in suo favore, lasciando che la ghiotta occasione gli venisse offerta dall’avversario, evitando così di instillare nell’elettore sospetti che potessero pregiudicarne l’esito.
Suo malgrado, poi, sotto il ricatto della Lega ha dovuto fissare una data scomoda per la consultazione. Ma quando è stato interpellato a riguardo non ha esitato e si è lasciato sfuggire: “Certo che voto, e voterò sì. Non sono masochista!”. Sono anni che Mario Segni e Arturo Parisi manomettono regole e assetti secondo i loro rigidi schemi, a colpi di referendum. Sono anni che anche per questo il sistema politico italiano soffre di leggi elettorali deformi e inadeguate.
È innegabile che il parlamento non sia stato ancora capace di scrivere buone regole, ma quel che è sicuro è che il popolo, chiamato a decidere con quesiti di incidenza parziale e su una materia squisitamente tecnica e dannatamente complessa, può soltanto fare di peggio. Come noto, poi, l’istituto referendario racchiude una trappola per i dissenzienti che, a differenza dei sostenitori, si dividono tra chi si si astiene e chi va a votare “no”, lasciando il responso dell’urna sempre a vantaggio del “sì”.
Non resta quindi che il boicottaggio, affinché il quorum non venga raggiunto. Il weekend del 20-21 giugno passiamolo in campagna: non avremo il rimpianto di perdere l’occasione di una bella gita, e saremo contenti di aver evitato al Paese l’ennesima sciagura.
*portavoce del Forum per l’Unità dei Repubblicani
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.