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Il dibattito sul futuro del socialismo italiano

Un partito democratico o liberalsocialista?

La sinistra non deve estinguersi, ma adeguare il proprio messaggio al XXI secolo

di Andrea Pinto - 09 gennaio 2007

Il provvidenziale dibattito sviluppatosi, nei mesi scorsi, sull’ identità e sul futuro del socialismo in funzione maieutica con le prospettive di un nuovo partito democratico o post-socialista ( per dirla con Veltroni) ha avuto il pregio di rendere evidente il paradosso ,tutto domestico,nel quale si dibatte la sinistra riformista italiana. Che non è, certo, quello di estinguersi in un indistinto nuovo soggetto politico quanto,piuttosto, quello di avere la capacità di adeguare il proprio messaggio e la propria missione ai mutamenti epocali del XXI secolo facendo tesoro della capacità che ha sempre avuto il socialismo di adattarsi alla realtà (Lazar). Il che vuol dire, nel caso di specie, darsi un compiuto profilo liberalsocialista . Se finora questo non è ancora avvenuto è, in gran parte, anche la conseguenza dell’ incompiuto travaglio di quelle forze politiche le quali - anziché consolidare il proprio lineare percorso evolutivo nel solco della tradizione riformista che avrebbe offerto loro un coerente ancoraggio - hanno preferito imbarcarsi, a metà del guado, più per necessità che per convinzione e passione, nel cantiere di un nuovo ed indefinito soggetto politico del quale si vagheggia, con alterni esiti e senza grande costrutto, da almeno dieci anni. Le ragioni finora addotte dai fautori di questo progetto – da ultimo nel seminario di Orvieto - e i loro concreti comportamenti non sembrano tuttavia, allo stato, superare il vaglio del principio di non contraddizione se solo si considera tutto il dibattito sviluppatosi in questi anni intramoenia al centrosinistra all’insegna dell’identità e della differenza.

In realtà le difficoltà che incontra tale progetto sono risalenti negli anni e chiamano in causa, su di un piano più generale, l’irrisolta contraddizione tra due tendenze di fondo che, da tempo, si confrontano nel centrosinistra ossia l’anima neopartitica e quella democraticista. La prima, incarnata sostanzialmente dai Ds e da consistenti settori della Margherita oltre che dai soci minori della coalizione, punta decisamente ad un rilancio del primato della politica e dei partiti come momento necessario di rilegittimazione del sistema politico-istituzionale e del circuito rappresentativo elettori-eletti attraverso meccanismi decisionali maggiormente coinvolgenti la propria base elettorale. La seconda,incarnata dai prodiani, promotrice di un ambiguo e mai definitivamente chiarito progetto di destrutturazione dell’assetto partitico quale momento necessario per la successiva costituzione di un soggetto politico sostanzialmente d’opinione al servizio di una leadership apolide che stenta, tuttavia , ad avere una base di riferimento organizzata. Eppure in un celebre saggio sul potere e i meccanismi che lo governano John Kenneth Galbraith ( Anatomia del Potere, Milano, Mondadori, 1984) evidenziò come, in un qualsiasi organismo, le fonti del potere sono date dalla proprietà, dalla personalità e dell’organizzazione. Ebbene, come confermano le cronache recenti e meno recenti, il vero punto debole del progetto democratico nasce proprio dalla difficoltà, tutta politica, di conciliare la leadership (la personalità di Galbraith) di un partito che non c’è ancora con una proprietà (intesa come risorse finanziarie del nuovo soggetto politico) ed un’organizzazione che derivano da distinte fonti di legittimazione oltre che da un diverso approccio nella costruzione e consolidamento dei rispettivi blocchi sociali di riferimento. Anziché affrontare e risolvere preliminarmente tale contraddizione sul piano politico si è preferito, per ragioni evidentemente più tattiche che strategiche, caricare un evento dagli esiti ampiamente previsti, come le primarie, di valenze improprie.

La stessa tesi,variamente espressa, secondo la quale la democrazia primaria abbia, come d’incanto, estinto le diversità costituendo, di fatto, una nuova e grande associazione politica (Parisi) è apparsa alquanto forzata essendosi gli elettori pronunciati,a suo tempo, sul candidato premier della coalizione e non certo sull’adesione ad un nascente partito democratico dal profilo ancora indistinto. In altri termini l’aver voluto precipitosamente innestare sull’esito delle primarie il tema del partito democratico prescindendo, in un certo senso , dal grado di maturazione del progetto e dagli scenari, affatto scontati, che la nuova legislatura determinerà nel sistema politico, rischia di sacrificare e svilire anzitempo una prospettiva interessante e meritevole quantomeno di approfondimento, sull’altare, alquanto mutevole,delle piccole contingenze. In realtà la pretesa di creare per forza un contenitore unico sembra non voler prendere atto della diversa prospettiva politica dentro la quale si muovono,rispettivamente, Margherita e DS. Proiettata la prima a ridefinire un perimetro centrista in grado di attrarre settori e ambienti di ascendenza democristiana in uscita dal centro destra in vista di un più generale riposizionamento degli assetti interni al sistema politico; compressi i secondi , in nome di un eccesso di realismo politico, nel ruolo di intendenza napoleonica a difesa di un precario equilibrio politico che ci si ostina a ritenere funzionale al progetto del partito democratico e che produce l’effetto perverso di impedire la riunione dei riformismi. Cosicché anziché puntare decisamente ad inverare l’ossimoro liberalsocialista (Amato) mediante la creazione di un nuovo soggetto politico a quella cultura chiaramente ispirato, con il partito democratico si preferisce indugiare in una “composizione fatta di scomposizioni” (Manzella); offrendo il destro a quanti, come John Lloyd prendendo spunto dal travaglio e dall’indeterminatezza del suo profilo, stigmatizzano l’indifferenza che oramai sussisterebbe tra destra e sinistra. Una critica che sembra essere la nobile declinazione della ben più corrosiva tesi di quanti considerano la politica ormai ridotta ad amministrazione. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto e avviene nelle più avanzate esperienze del socialismo europeo impegnate ad aggiornare la propria mission più che a celebrare la propria eutanasia. Da questo punto di vista è del tutto evidente che sia che si aderisca al progetto democratico sia che si privilegi la prospettiva liberalsocialista occorre in ogni caso un nuovo inizio per rivitalizzare la partecipazione ed il coinvolgimento di ampi settori di elettorato desideroso di concorrere a determinare le scelte fondamentali del nuovo soggetto politico ma anche per recuperare all’impegno i tanti “riformisti senza terra” il cui apporto è indispensabile da un lato per stemperare quella connotazione post-comunista che ancora caratterizza i Ds limitandone le potenzialità espansive e, dall’altro, per imprimere al programma del nuovo partito quella modernità, vivacità e apertura culturale in grado di riunire il riformismo liberalsocialista sotto un’unica insegna. Una mediazione culturale e politica indispensabile per dare impulso al rinnovamento della sinistra se è vero , come ha ricordato recentemente Sergio Romano sul Corriere della Sera, che il vuoto politico lasciato dal Psi di Craxi ha finora impedito di avere un vero partito socialista.

Non a caso gran parte delle difficoltà della coalizione di governo derivano dal fatto che la sinistra al potere è oggi costituita, in tutto il suo spettro, da formazioni nate dallo scioglimento del vecchio Pci e rimasta in larga misura ancorata ai più vieti cascami ideologici di quella tradizione che vengono puntualmente riproposti con modesti adattamenti . Le continue fibrillazioni del Governo Prodi su temi quali la lotta al terrorismo , la sicurezza interna e la libertà individuale , il ruolo internazionale dell’Italia sono in larga misure figlie di questa perniciosa regressione culturale che permea e condiziona larga parte della stessa base dei DS . Temi sui quali, invece , già si misura Tony Blair con analisi largamente condivisibili.

Un impulso decisivo in questa direzione potrebbe venire proprio dal popolo delle primarie che ha dimostrato di essere oramai maturo per ben più impegnative scelte e che potrebbe rivelarsi determinante nel sancire quell’indispensabile soluzione di continuità con il passato e superare di slancio le residue resistenze delle attuali nomenclature. Uno strumento, quello della “democrazia partecipativa”(Manzella) che altro non è se non la tardiva applicazione di quel “metodo democratico”, auspicato dall’art.49 della nostra Costituzione, mediante il quale i cittadini, associandosi liberamente in partiti, concorrono a determinare le scelte interne dei partiti e, di conseguenza, la politica nazionale. Quello che occorre è, insomma, far decollare un grande dibattito che coinvolga effettivamente, ai diversi livelli, la potenziale base elettorale del nuovo partito attorno ad una opzione politica sufficientemente definita e nel quale il gruppo dirigente ne sia la più coerente risultante. Un po’ come è avvenuto in Grecia dove il Pasok, per la scelta dei propri sindaci in alcune grandi città, ha coinvolto cittadini ed elettori in una sorta di moderna “agorà” che ha mobilitato migliaia di persone. O come è avvenuto nel New Labour per la selezione della propria classe dirigente. Per non parlare dell’eccellente prova data dalle primarie indette dai socialisti francesi per la scelta del loro candidato all’’Eliseo che rappresenta il paradigma ideale cui dovrebbe ispirarsi il nuovo soggetto politico nella scelta della propria leadership . Da questo punto di vista, anziché industriarsi nella ricerca di improbabili ascendenze, se si ha la costanza di rileggere il saggio di Carlo Rosselli sul socialismo liberale non si può non riconoscere che esso conserva ancora, nei suoi assunti fondamentali, una straordinaria modernità. Il “socialismo è liberalismo in azione” ricordava Rosselli sottolineando l’intima connessione tra la forza ideale ispiratrice del liberalismo e la forza pratica realizzatrice del socialismo. E proprio nella capacità di portare a nuova sintesi liberalismo e socialismo,ossia le culture politiche che hanno informato, rispettivamente, il XIX° ed il XX° secolo adattandole - con virile relativismo direbbe Rosselli - ai nuovi problemi che una società globalizzata pone è la sfida che attende i riformisti del terzo millennio ma è anche il portato più vivo dell’eredità socialista che consiste, ancora oggi, nella capacità di farsi carico delle nuove disuguaglianze o, per dirla con il lessico sobrio ed essenziale di Dahrendorf, nel cercare di “portare benefici al maggior numero di persone” . Del resto questa è la lezione ed insieme il messaggio che proviene dal nuovo laburismo inglese e dal socialismo spagnolo entrambi impegnati, con sensibilità diverse, a coniugare giustizia sociale , efficienza economica e modernità . Diversamente si rischia solo di immolare le passioni e le speranze della “meglio gioventù” sull’altare di un nuovo crociano ircocervo quale rischia di essere il tanto agognato partito democratico.

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