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Public Policy

Riflessioni da “Cortina, Cultura e Natura”

Un Paese senza classe dirigente

Prima di passare alla Terza Repubblica, chiudiamo le ferite ancora aperte dalla Prima

di Enrico Cisnetto - 31 agosto 2005

Sono convinto che esista una relazione profonda, di causa ed effetto reciproco, tra la crisi del capitalismo italiano – di cui le più recenti vicende sono soltanto la punta dell’iceberg – e la crisi del sistema politico, che mostra evidenti segnali con la progressiva implosione (di fatto) dei due poli del bipolarismo all’italiana. Anzi, credo che stia proprio in questo intersecarsi di crisi sistemiche il declino strutturale del Paese. Altro che questione morale, qui siamo di fronte al disastro – tutto “politico” – di una classe dirigente incapace di dare a se stessa e all’Italia non dico un progetto per il futuro, ma neppure una modalità di gestione comune del presente. In questo senso la “transizione infinita” andata in scena in questi tredici disgraziati anni di cosidetta Seconda Repubblica rischia di concludersi nel modo peggiore: senza uno straccio di idea di come costruire la Terza. Cioè un piano per costruire un sistema politico capace di governare i processi anzichè subirli, e per dar vita ad un assetto capitalistico in grado di tenere il passo veloce della globalizzazione.

Di questi temi si è discusso molto nei giorni scorsi agli incontri di Cortina d’Ampezzo: sentendone parlare, e parlandone io stesso, mi sono convinto che siamo tornati all’inizio degli anni Novanta, quando le grandi trasformazioni incombenti (caduta del Muro di Berlino, avvio del processo di integrazione monetaria europea, inizio della globalizzazione, rivoluzione tecnologica) hanno messo a nudo i limiti del sistema Italia di allora. E si badi bene, la Prima Repubblica che è caduta tra il 1992 e il 1994 non era solo quella politica, ma anche quella economica, come testimonia sia il coinvolgimento degli imprenditori in Tangentopoli, sia soprattutto la crisi del “salotto buono” cui aveva dato vita Enrico Cuccia. Tanto è vero che in questi tredici anni abbiamo pagato il prezzo – e che prezzo! – tanto di un bipolarismo straccione che non ha saputo governare il Paese quanto della scomparsa di interi settori, a cominciare da quello delle grandi imprese, del mondo industriale.

Ora la storia sta per ripetersi. Il ceto politico, almeno quello decente, vorrebbe liberarsi dei vincoli di un sistema malfunzionante, ma non ne ha il coraggio perchè in questi anni ha venduto agli italiani la favola del “maggioritario miracoloso” e del “bipolarismo toccasana”. Così si assiste ad un dibattito ozioso tra chi esalta il valore dell’alternanza (ma chi lo nega?) e chi si presume abbia nostalgie del passato (io sarei fra questi) solo perchè critica il “bipolarismo realizzato”, mentre il Paese avrebbe bisogno di una nuova legge elettorale (di tipo tedesco, come io preferirei, o francese, ma che abbia senso compiuto), di un’Assemblea Costituente che metta fine agli strappi a colpi di maggioranza della Carta fondamentale e riordini in modo moderno uno Stato che oggi conta 120 ordinamenti istituzionali diversi, e infine di una scomposizione e ricomposizione delle alleanze politiche che assuma come tratto distintivo non più la novecentesca divaricazione tra destra e sinistra, ma quella tra i fautori dello status quo degli interessi e dei diritti (chiamiamoli per semplicità conservatori) e coloro che vogliono il cambiamento e la modernizzazione (riformatori), distinzione che oggi taglia trasversalmente i poli e i partiti stessi.

Dal canto suo il mondo del business, mentre si rintana nella rendita immobiliare e finanziaria, trova modo di aprire una guerra di religione su alcune spoglie, senza rendersi conto che si tratta di una “guerra dei poveri” dove il potere economico in palio è assolutamente effimero. D’altra parte, l’establishment si era già spaccato con Cuccia ancora in vita (prima lo scontro Agnelli-Romiti dentro la Fiat e poi il fallito attacco a Mediobanca con le opa gemelle su Banca di Roma e Comit del 1999 bloccate da Fazio), figuriamoci alla sua morte per una successione in realtà impossibile (per mancanza di eredità). Ora il vecchio establishment, con l’innesto di nuovi protagonisti (da Montezemolo a Della Valle) si trova a combattere un’ulteriore conflitto, con i raider del mattone e della finanza facile. Mentre sullo sfondo dei 4,5 milioni di imprese italiane, se ne salvano (per dimensione e tipo di attività) qualche decina di migliaia, e nessuno dice come bisognerebbe riconvertirle.

Per di più “piove sul bagnato”, perchè è sulle ferite mai rimarginate del passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica che si sta versando il sale di questo nuova transizione difficile che è ormai cominciata. Come evitare che la Terza Repubblica sia peggio della Seconda? Della parte construens di questo ragionamento parliamo la prossima settimana.

Pubblicato sul Foglio del 26 agosto 2005

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