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L'editoriale di Società Aperta

Un Paese prossimo al suicidio

Gli italiani assistono con rabbia e rassegnazione allo spettacolo della politica. Scongiurata la "crisi kazaka", ora il governo si occupi della ripresa

di Enrico Cisnetto - 20 luglio 2013

Per fortuna Alfano non è stato sfiduciato, i falchi di Pd e Pdl hanno perso. La decisione opposta sarebbe stata una sciagura, ben più grave della pur fondata motivazione con cui si poteva realizzare l’impeachment, visto che impallinare il ministro degli Interni avrebbe significato fare automaticamente altrettanto con il presidente del Consiglio. D’altra parte, alzi la mano chi davvero crede che agli italiani interessi di più l’affare kazako del governo Letta. Per carità, la vicenda ha risvolti incresciosi che, come ha detto Letta, per l’Italia sono motivo di imbarazzo e discredito. Ma nel pieno di una crisi, recessiva e di fiducia, senza precedenti, immaginare che il governo caschi per colpa di questa storiaccia, beh aggiungerebbe il danno alla beffa, anzi allo sputtanamento. Danno irreparabile, per di più, perché quello di “grande coalizione” è oggi l’unico esecutivo possibile, salvo non mettere in conto, è bene rammentarlo ai deboli di memoria, le dimissioni del Presidente della Repubblica ed elezioni da vero e proprio salto nel buio. Dunque, sia benvenuta quel po’ di sana realpolitik che si è vista al Senato, ad evitare di cedere alla tentazione di usare questioni internazionali per regolare conti nazionali. Forse chi l’ha praticata neanche lo sa, ma nel caso ha seguito una vecchia regola aurea, vigente quando la Repubblica aveva ancora un’anima: è pericoloso far cadere i governi su questioni di politica estera.

Detto questo, sarebbe un errore minimizzare, e per evitarlo ci sono due valutazioni politiche da fare. La prima riguarda l’affaire Kazakistan, e ciò che mette a nudo, la seconda il governo Letta.
Primo tema. Partiamo dal presupposto che il Kakazistan è una satrapia cleptocratica post-sovietica, dove distinguere i buoni dai cattivi è impresa ardua e pericolosa. Nello stesso tempo, sappiamo che quel paese è un importante partner commerciale dell’Italia, con cui facciamo e si spera faremo sempre più grandi affari, specie nell’approvvigionamento di materie prime per l’energia. Tutto questo ovviamente “pesa”, e il moralismo che si è visto in giro in questo frangente è pura ipocrisia. Ma non può mai condurre alla violazione di diritti civili essenziali. Cosa che invece è avvenuta. E con modalità che rendono evidente, ancora una volta, come non funzioni nelle nostre istituzioni la catena di comando, come non siano mai chiare le responsabilità e non sia assicurata la circolazione delle notizie, rendendo con ciò possibili pressioni e manipolazioni dall’esterno.

D’altronde, il “sonno della politica”, che delega le scelte politiche a burocrati, questurini e magistrati – mentre gli unici titolati a intervenire in questo caso, i servizi segreti, sono stati del tutto assenti – inevitabilmente “genera mostri”. Insomma, non avremmo dovuto consegnare madre e figlia. Ma lo abbiamo fatto, purtroppo, e a questo punto abbiamo il dovere di utilizzare i buoni rapporti e i buoni affari con il Kazakistan per chiedere che la nostra rappresentanza diplomatica abbia diretta e costante visibilità sulle condizioni di vita di quelle due persone, nel cui interesse dobbiamo reclamare e garantire adeguata assistenza legale. Contando sul fatto che anche al governo kazako ora conviene che ciò avvenga.

Quanto al governo, avrebbe fatto miglior figura se si fosse subito assunto le responsabilità politiche del caso, invece di balbettare e dare al mondo l’idea che da noi un ministro può agilmente farsi fregare da un funzionario. Ora, però – e qui siamo alla seconda questione di fondo – sarebbe un errore ancor meno perdonabile se, superato lo scoglio Alfano, tutto continuasse come prima. Questa vicenda, invece, va colta come l’occasione per ridefinire l’approccio e gli assetti della maggioranza e dell’esecutivo. Che finora non hanno funzionato, salvo assicurare la sola sopravvivenza. Occorre far leva sulle inequivocabili parole di Napolitano, sul fatto che Berlusconi per un verso e il sempre più impazzito Pd per un altro, non possono permettersi in questa fase una crisi e le conseguenti elezioni. Se poi tutto questo richiede un rimpasto, magari con la nomina di un nuovo ministro dell’Interno – con Alfano che rimane vicepresidente del Consiglio – nulla osta. L’unica cosa che non si può fare è tornare a traccheggiare, a rinviare le decisioni, a occuparsi di cose marginali e lasciar stare quelle grandi scelte cui i due poli separatamente non erano riusciti a metter mano. Non lo si sarebbe dovuto e potuto fare prima della vicenda kazaka, di fronte all’emergenza economica, non è ammissibile ora che a questa si è aggiunta questa figuraccia in mondovisione. Vicenda che gli italiani – dotati, per fortuna e purtroppo allo steso tempo, di memoria corta – sono ben disposti a perdonare e dimenticare in fretta, se solo si scorgesse un segnale decisionista, visto che fin qui hanno assistito attoniti, in un mix di delusione e rabbia, al suicidio del Paese.

Si evoca la ripresa prossima ventura, ma intanto tutti gli indicatori peggiorano e, come dice giustamente De Rita, l’Italia vive “immersa nel rancore” – lo chiamano “ciclo basso dell’empatia” – con la sensazione sempre più diffusa che si sia già superato, o al massimo si stia superando ora, il punto di non ritorno.

Sostanzialmente, c’è una quota di Paese – qualcuno la stima intorno al 20%, io temo possa essere anche qualcosa in meno – che funziona e vorrebbe lottare per tornare a d essere vincenti. Nell’industria e nei servizi sono coloro che esportano, che si sono globalizzati, e che riescono “a prescindere” dall’Italia. Qui si annida la frustrazione derivante dallo star bene in un contesto negativo, e il rischio è che questa, che già è una minoranza, alla lunga percepisca l’inutilità, se non proprio lo svantaggio, di restare in Italia e faccia progressivamente fagotto. Sarebbe una perdita immensa, perché qui c’è il nucleo fondante della possibile rinascita nazionale. Poi c’è una maggioranza relativa che dalla crisi non è stata travolta, ma teme che di poterlo essere. Spesso si tratta di italiani che hanno accumulato nel passato un discreto patrimonio, usabile “mangiandoselo” per mantenere il livello di vita precedente (ma senza i lussi di un tempo).Oppure si tratta imprenditori e professionisti (finora) al riparo dalla concorrenza perché operano in settori protetti, e che alzano barriere a difesa dei propri privilegi. Oppure ancora, sono percettori di reddito fisso modesto ma (finora) sicuro, come i dipendenti pubblici, o sono pensionati della fascia medio-alta delle prestazioni previdenziali. In tutti questi si annida la paura – quella che blocca consumi e investimenti nonostante l’esistenza di risorse – e la sfiducia. È l’area del Paese che ha il giudizio più sprezzante sulla “casta”, quella che nel corso degli anni ha premiato elettoralmente tutti quelli che hanno alzato i vessilli, variamente colorati, dell’anti-politica. Spesso improduttiva, questa componente sociale teme che nulla sarà più come prima, ed esercita una funzione rancorosamente conservatrice.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.