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Motivi psicologici prima ancora che pratici

Un Paese fermo a rischio Argentina

Banca d’Italia: nel 2005 le famiglie continuano a vendere attività e vanno all’estero

di Enrico Cisnetto - 12 giugno 2006

I capitali sono sempre più in fuga dall’Italia. E non sto parlando degli spalloni di una volta, che portavano le valigette piene di contanti in Svizzera, ma più semplicemente della crescente delocalizzazione sia del risparmio, e sia, per quanto riguarda imprese e grandi patrimoni, del pagamento delle tasse. Declino, sfiducia, timore di “stangate” fiscali, paura di un quadro politico poco rassicurante, ricerca presso altri lidi di rendimenti più redditizi: sono questi i motivi, psicologici prima ancora che pratici, che spingono sempre più italiani a riparare finanziariamente all’estero. Un’emorragia che non si arresta. Nel 2005, secondo la Banca d’Italia, le famiglie hanno continuato a vendere le attività italiane e si sono dirette all’estero. Visto che i titoli di Stato hanno deluso le aspettative, gli italiani si sono liberati di oltre 15 miliardi di titoli a breve termine e di 26 miliardi di quelli a lungo termine, oltre che di 3,3 miliardi di euro di obbligazioni bancarie. E i fondi privati non hanno fatto eccezione: 1,2 miliardi di “rosso” in aprile, 5,2 miliardi in maggio secondo Assogestioni. La grande fuga dall’Italia significa quasi sempre l’approdo verso i titoli degli altri, sia quelli americani che quelli dei paesi emergenti (Turchia e Brasile, per esempio). Oltre tutto, preoccupa che alcune delle attività finanziarie verso le quali il risparmio italiano sembra propendere sono infinitamente più rischiose degli investimenti in Bot, e non si tratta solo di hedge fund ma anche di bond speculativi: non vorrei che ci ritrovassimo con qualche nuovo “caso Argentina”. Se a questo deflusso di risparmio si aggiunge la crescente tendenza degli imprenditori, anche piccoli, di trasferire nei paesi fiscalmente più convenienti i profitti e gli asset patrimoniali, prevalentemente usando le holding, in modo da pagare meno possibile, si capisce come l’Italia rischi di assomigliare ad un auto priva di serbatoio. Fatto che diventa ancor più stridente se si pensa che nel frattempo oltre la metà del nostro debito pubblico è ormai in mano a investitori stranieri, e che tra essi i maggiori detentori sono proprio quei cinesi cui imputiamo la crisi della nostra industria.
Eppure il risparmio rappresenta l’unica nostra commodity. Stiamo parlando di una quantità enorme di denaro, qualcosa come diecimila miliardi di euro, per oltre due terzi investiti in immobili e per il resto in attività finanziarie. E non solo non riusciamo a creare le condizioni perché queste risorse confluiscano verso le attività produttive, ma continuiamo a finanziare interessi esteri che con quei capitali innovano le loro aziende e fanno concorrenza alle nostre. Il fatto è che il ricordo dei recenti crack finanziari è ancora vivo, che il numero di società quotate in Borsa continua ad essere eccessivamente limitato, che le scarse regole di governance influiscono sul livello di contendibilità delle imprese e che i fondi pensione devono ancora decollare. Non stupiamoci, allora, se gli italiani i soldi preferiscono tenerli all’estero.
Certo, a pensarci bene è incredibile: il Paese è fermo, gli investimenti produttivi latitano, da 14 anni rincorriamo un risanamento dei conti pubblici che non riusciamo mai a realizzare, mentre una montagna di quattrini, un patrimonio immobiliare gigantesco e tanti profitti varcano i confini. Che follia.

Pubblicato sul Messaggero dell’11 giugno 2006

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.