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Un nuovo modello: più Stato, più Mercato. La ricetta vincente per le imprese

di Enrico Cisnetto - 04 febbraio 2005

Prima il tavolo italo-francese su Edison e dintorni, poi la riapertura del dibattito sull'italianità delle banche e gli strumenti di protezione adottati da Bankitalia, ora il caso Fiat-GM e il decreto del governo sulla competitività (sic), hanno finalmente ridestato l'attenzione sulla politica industriale.

E' un buon segno: fino a ieri si discuteva se il declino esiste o meno, oggi a parte qualche stolto nessuno nega che alcuni choc endogeni (fine della svalutazione competitiva della lira, blocco dell'espansione del debito rispetto al pil, privatizzazioni) e altri esogeni (esplosione sulla scena mondiale di alcuni paesi in via di sviluppo, rivoluzione tecnologica) abbiano portato ad una crisi del modello di specializzazione del nostro sistema produttivo (produzione ed esportazione di beni a basso contenuto tecnologico a cura di aziende di dimensioni ridotte) e che nel chiamare tutto questo "declino" non ci sia niente di scandaloso. Ancora ieri molti economisti chiamati dalla Fondazione Rodolfo De Benedetti a discutere di "oltre il declino" hanno detto chiaramente che la marginalizzazione crescente del nostro capitalismo non dipende nè dalla congiuntura, nè dalla supervalutazione dell'euro o dalla crescita del prezzo del petrolio, ma da carenze strutturali tutte nostre.

Ma se fin qui ci siamo arrivati - ci sono voluti alcuni anni, ma pazienza - il nodo da sciogliere resta quello del "che fare". E sì, perchè su questo fronte l'Italia è rimasta vittima di uno scontro ideologico che ancora la divide tra liberisti che pensano che il mercato faccia tutto da solo e statalisti che sognano il ritorno dello Stato gestore (vedi l'ipotesi di intervento pubblico nella Fiat). Senza capire che oggi la risposta al declino, al processo di deindustrializzazione e alla prepotente crescita competitiva dei paesi emergenti - come indicato nelle analisi di Società Aperta (movimento d'opinione presieduto da chi scrive) - non può che venire dal binomio "più Stato" (decisore delle scelte strategiche del sistema-paese) e "più mercato" (meno vincoli, ma anche meno protezioni e regole più ferree), cui occorre aggiungere "più Europa", nel senso di un sistema federale che consenta di accelerare l'integrazione di Eurolandia, per dare senso compiuto all'euro e rafforzare la politica industriale continentale a fronte della capacità competitiva dei paesi emergenti.

Su questa strada si è avviata con decisione la Francia. Prima con la "dottrina Sarkozy": costruire "campioni nazionali" capaci di diventare "campioni europei", o mangiando i più piccoli (Edf con Edison) o negoziando ai tavoli delle integrazioni e dei consorzi (vedi Airbus). E ora con il progetto elaborato da un tecnocrate con i cromosomi del civil servant, quel Jean-Louis Beffa amministratore delegato della Saint-Gobain (da sempre luogo di eccellenza industriale e manageriale) che Chirac ha messo alla testa della neonata Agenzia per l'Innovazione dotandola di 1 miliardo (che diventeranno 3 presto, e 6 se dovesse diventare europea). La cosa più importante è che Beffa non dedicherà risorse a politiche orizzontali (i fattori) ma a politiche verticali (i settori), scegliendo alcuni ambiti di eccellenza come per esempio le biotecnologie o la microelettronica nei quali la Francia vorrà esserci presidiandoli e non solo con qualche azienda di nicchia.

In Italia, invece, siamo ancora attardati al "giavazzismo", in base al quale lo Stato regolatore deve limitarsi a far funzionare il mercato (cosa che comunque occorre fare, per carità), astenendosi dal fare scelte, tantomeno quelle settoriali. Il risultato è che ci siamo convinti che basti migliorare il mercato del lavoro e ridurre il peso fiscale: cose sacrosante, ma insufficienti a indurre una ripresa che invece abbisogna di un progetto Paese, di un nuovo modello di specializzazione senza il quale meno costo del lavoro, flessibilità, più formazione, meno burocrazia, nuove infrastrutture e meno tasse (tutte cose in qualche misura già realizzate e in gran parte da realizzare, compatibilmente con i vincoli di bilancio) finirebbero solo per procrastinare i tempi della decadenza.

Dunque, il declino non sarà un destino obbligato solo se nel Paese sarà battuto il fortissimo il partito della conservazione - quello degli interessi da difendere, dei diritti senza doveri ma anche dei riflessi condizionati da vecchi impianti ideologici e nuovi tabù - e vincerà quello della modernizzazione, che per sua natura o è pragmaticamente riformista o non è. Un partito che sappia fondere Blair - cioè la sinistra che guardando a destra vede la modernità nella riforma dello Stato sociale, affiancando al welfare dei diritti quello della responsabilità e delle opportunità - con Sarkozy, cioè la destra che guardando a sinistra capisce che per affrontare i cambiamenti epocali della globalizzazione non basta solo il mercato, ma occorre un sano coinvolgimento dello Stato.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.