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Il "fascismo finanziario" paventato dall'ultimo Tremonti

Un nuovo grande fratello all'orizzonte?

Ma per l'Economist il problema è altro: il capitalismo di stato (alla cinese) prevarrà sul capitalismo privato

di Elio Di Caprio - 15 febbraio 2012

Una cosa è l’azione, altra la riflessione. Nel caso di Giulio Tremonti – intellettuale prestato alla politica o giurista prestato all’economia? - la contraddizione tra il dire e il fare, tra azione e riflessione, non potrebbe essere più evidente almeno a giudicare dal lungo periodo in cui ha avuto la quasi totale responsabilità dell’economia e della finanza italiana accanto a Berlusconi. Poi il sodalizio si è rotto grazie al precipitare della marea incontenibile della crisi finanziaria mondiale ma è difficile cancellare dai nostri recenti ricordi i tanti minuetti ai tavoli internazionali in cui Tremonti non osava discostarsi dall’ottimismo facilone del nostro ex presidente del Consiglio assecondandolo nell’ingenua pretesa di imbonire i partners europei o rinviando sine die le misure di austerità che il governo Monti si è successivamente accollato.

E’ facile trovare una logica nelle astrazioni e tutte le riflessioni sul futuro sono plausibili– Toni Negri prima di Tremonti ha previsto, ad esempio, una lotta di classe internazionale tra le classi sfruttate e impoverite di tutto il mondo contro le ineguaglianze del mondo globalizzato mentre il teorico della decrescita Serge Latouche ci ha avvertito già dagli anni ’90 dell’insostenibilità progressiva della società dei consumi- ma poi perché Tremonti sarebbe l’unico al mondo ad aver capito quel che stava preparandosi pronto a distribuire a destra e a manca ricette per prevenire o superare la tempesta finanziaria e perché nessuno lo ha ascoltato? Poteva mai produrre un suo manifesto intellettual-politico credibile proprio lui che continuava a rappresentare il governo Berlusconi che, come è stato visto e ampiamente comprovato, suscitava le più giustificate riserve da parte degli Obama, delle Merkel e degli altri Grandi della terra per la poca serietà e per i continui bluff sulla solidità della nostra economia? Nello smarrimento della crisi finanziaria che è globale se non altro perché deve tener conto dei tanti nuovi attori affacciatisi alla ribalta dello scenario internazionale ben più numerosi rispetto alla crisi del ’29 del secolo scorso ma con conseguenze che ancora una volta saranno assai diverse da Paese a Paese o tra un’ area economica e l’altra – basterebbe osservare la sufficienza con cui gli USA guardano alla “vecchia” Europa decadente e al pasticcio dell’eurozona tendendo ad auto confermarsi come la vera guida del mondo ( non solo occidentale) del prima e del dopo - si dice ormai tutto e di tutto, tanto è difficile prevedere il futuro e controllare le tante grandezze in gioco.

Sarà pure tutta colpa della Cina, come dice Tremonti, e dell’avventatezza dell’ Occidente ( quale? America e Europa insieme?) ad aprire troppo presto e senza regole all’invasione dei prodotti cinesi oppure la responsabilità della crisi, come dicono i più, va addebitata alla deregolamentazione dei mercati finanziari americani voluti dal “liberal” Clinton più che dalla destra repubblicana, ma è sempre più chiaro che questa crisi non è come quelle precedenti di presunta distruzione creativa del capitalismo, è epocale perché può distruggere tutto in nome della libertà economico-finanziaria senza frontiere e senza limiti, sempre più difficilmente contenibile dagli Stati nazionali a cominciare dal Paese leader del mondo, gli USA, che i suoi costi del resto li sta già pagando da almeno tre anni. L’Economist ha dedicato un fascicolo di studio ed analisi a quello che ci aspetta nel prossimo futuro e parla, pensando soprattutto alla Cina ma non solo ad essa, di un nuovo modello vincente di capitalismo di Stato che sta sorgendo sulle ceneri dei fasti e nefasti del capitalismo privato che per due secoli ha assicurato, nel bene e nel male, lo sviluppo economico e tecnologico di tutti gli Stati della terra sia pure con quegli squilibri e quelle guerre che il pensiero marxista vi ha sempre associato. Vuol dire che non ci saranno più né squilibri e né guerre con il prevalere del capitalismo di Stato, non già quello dell’autarchica URSS incapace di produrre ricchezza, ma della dinamica Cina che in pochi anni è destinata a diventare la prima potenza mondiale grazie al sapiente sfruttamento delle opportunità dischiuse proprio dalla logica del capitalismo privato? Ma mai un settimanale serio e “pensato” come l’Economist sarebbe caduto nell’abusata retorica dell’immagine usata da Tremonti nel suo ultimo pamphlet sulla possibile ricaduta in un fantomatico “fascismo finanziario”, come sinonimo di un sistema di regole imposte dall’alto a Stati recalcitranti, ma sottomessi e piegati.

Ma poi genuflessi a chi e a quale entità? Immagine per immagine c’è già chi evoca il termine fascista in senso opposto per quei movimenti d’opinione pubblica che in Europa- il caso dell’Ungheria è finora il più vistoso – reagiscono e protestano contro la globalizzazione capitalistica in nome dei popoli, dell’etnia o della Nazione. Tutto può succedere, ma è molto meglio ammettere – se non altro vi è una realtà storica corrispondente- che tutto cominciò dal e nel nuovo mondo, dalla potenza economica degli USA emersa ai primi del’900. L’influenza americana sulle vicende europee è sì iniziata con l’intervento nella prima guerra mondiale dell’altro secolo ma si è manifestata già prima della seconda proprio per gli effetti prodotti in Europa dalla crisi del’29 con la Germania diventata culla del nazismo grazie alle conseguenze a lungo termine degli squilibri determinati dalla depressione economica. E’ questo il vero spettro che viene agitato nella coscienza collettiva come se la Storia potesse ancora ripetersi. Il futuro fascismo finanziario, magari già presente secondo Tremonti nei nostri orizzonti, è invece una figura retorica che ha poco senso. E’ forse quello capeggiato insieme dagli USA e dalla Cina, tra il primo creditore ed il primo debitore del mondo intero, entrambi interessati per motivi diversi a volgere le spalle alla vecchia Europa e all’euro? E chi ci dice che non prevalga alla fine il modello cinese, il capitalismo di Stato evocato dall’Economist? Sarebbe molto meglio per Tremonti continuare piuttosto a parlare degli sconosciuti mostri da videogiochi che abbattuti sempre riappaiono, apparentemente senza strategia, per creare un nuovo ordine mondiale senza guerre guerreggiate. Saremmo almeno più vicini alla realtà, quella realtà che per tanti anni il nostro ex ministro dell’economia ha continuamente rimosso pagando pegno alla propaganda berlusconiana che, occorre dirlo, ha vistosamente diminuito le munizioni di credibilità del nostro Paese rendendoci sempre meno indipendenti dal presunto “fascismo finanziario” prossimo venturo….

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