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Public Policy

La <i>componente populista </i>di Edmondo Berselli

Un (nuovo) e demagogico ‘68

La politica, ha un bisogno forsennato di retorica e di messaggi semplificati

di M.M. - 30 ottobre 2008

Fa un po’ impressione leggere Edmondo Berselli su “populismo e la sinistra” (Repubblica, 25 ottobre). Il politologo modenese esperto di Lucio Battisti si lancia in un lungo peana preventivo sulla manifestazione del Pd al Circo Massimo, e riflette pensosamente sulla assoluta necessità, per la sinistra, di introdurre una “componente populista” nella sua comunicazione (e forse anche nella sua identità), smettendo di considerarla materia riservata del PdL. Una tesi che potrebbe essere affascinante, se non fosse smentita ogni giorno dai fatti. Pretendere che la sinistra non abbia utilizzato retorica e demagogia è fare un torto alla memoria degli italiani. Dall’ambientalismo militante dei vari Pecoraro Scanio all’ala manettara del trio Di Pietro-Travaglio-Flores D’Arcais (che a sinistra si collocano, ma che di sinistra non sono), dal partito della spesa pubblica delle regioni rosse al riformismo debole che paga pegno al rivendicazionismo, la sinistra ha affondato le mani nella marmellata della retorica quanto più ha potuto, in questi anni.

E le stesse “veltronate”, con in primis il “modello Roma” (attualizzazione del panem et circenses imperiale eseguita con altri mezzi) cosa sono se non retorica populista? Certo, si dirà, il centro-destra è più a suo agio nell’utilizzo del medium televisivo. Esperimenti come il tragico risottino dalemiano a Porta a Porta o l’agnizione fassiniana della tata da Maria De Filippi mostrano come l’homo democraticus non sia ancora pronto per questo mezzo di recente introduzione. Ma questo è un problema della sinistra, non una colpa della destra (che ne ha di sue).

Molto meglio, dunque, la cara, vecchia piazza. E qui, lungi dagli atteggiamenti mussoliniani del premier Berlusconi, la sinistra ha il diritto sacrosanto di manifestare, sfilare, chiamare a raccolta, contarsi, ci mancherebbe altro. Saranno stati due milioni e mezzo o trecentomila, non ha molta importanza, anche perché la valenza politica di quella manifestazione rimane comunque pari a zero. Tuttavia, se la piazza rimane il mezzo espressivo che il Pd sa utilizzare con maggiore efficacia, ne consegue – e non sia considerato ostile dirlo – che la demagogia è la merce politica che più e meglio sa vendere. Anzi, la manifestazione di sabato 25 ottobre è stata un capolavoro di propaganda, con la decisione di intercettare la protesta studentesca e metterla al centro della rappresentazione. Gonfiata e anticipata da una massiccia campagna di stampa, la protesta degli studenti è stata fatta convogliare in una manifestazione del Pd che altrimenti rischiava di andare semideserta (mancando prevedibilmente il “proletariato”, secondo gli ultimi flussi elettorali approdato ad altri lidi, l’unica ad essersi prenotata era la classe media impoverita).

Un’operazione spregiudicata, e demagogica al 100%. Protestare sulla scuola è facile, infatti, solo a patto di dimenticare due cose: primo, che tutti i governi del passato, a partire da quelli di centro-sinistra, hanno ridotto le risorse alla ricerca e all’istruzione. Secondo, che la più grande rivolta che ci sia mai stata nella scuola fu quella a seguito della riforma (riforma vera, quelli della Gelmini sono solo tagli) di Luigi Berlinguer. Il quale, con sprezzo del pericolo, tentò di inserire un minimo di meritocrazia nelle carriere dei professori. Un’operazione che suscitò un mare di indignazione, soprattutto tra gli stessi insegnanti e soprattutto a sinistra, e portò alle dimissioni del ministro e alla sua damnatio memoriae.

Morale: tentare di inscenare oggi un nuovo ’68 – mentre non sono ancora finite le celebrazioni del vecchio – è un mezzo perfettamente lecito, seppur rischioso, per il Pd. Ed è, naturalmente, demagogia: una demagogia di segno uguale e contrario a quella di Brunetta e della sua ossessione per i fannulloni, o a quella dei militari nelle città, che mettono ansia invece di rassicurare. Ma la politica, specie in epoche di basso impero come queste, ha un bisogno forsennato di retorica e di messaggi semplificati. Questo l’hanno capito tutti. Tutti, tranne l’esperto di Lucio Battisti.

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