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I fondamentali dell'economia sono solidi

Un lunedì nero, ma niente drammi

C'è il rischio di recessione in Usa, ma l'Asia va. Rischio-Borsa e mercati

di Enrico Cisnetto - 22 gennaio 2008

Un lunedì nero, ai livelli dell’11 settembre. Ma ad onta dei 440 miliardi di capitalizzazione bruciati in un solo colpo dalle piazze finanziarie di tutta Europa – cui la Borsa di Milano ha dato il suo bel contributo con quello che è il settimo maggior tonfo degli ultimi dieci anni – l’incubo partito dai mercati asiatici e approdato nel Vecchio Continente appare sopravvalutato, perlomeno nei suoi effetti duraturi. E’ vero che ormai molti indicatori segnalano un’oggettiva debolezza dell’economia statunitense, ma i presupposti da cui muove la paura che ha portato ai crolli – lo spauracchio di una duratura recessione – paiono ancora infondati: sono ormai tre anni che una nutrita schiera di economisti grida “al lupo”, venendo poi puntualmente smentita. E’ vero che nella famosa favola alla fine il lupo si presenta davvero, e che in questi ultimi tempi i segnali si sono fatti sempre più forti – crollo delle vendite al dettaglio, ritorno al 5% del tasso di disoccupazione, prezzi dell’immobiliare in calo del 6% annuo – e che, soprattutto, il piano di sgravi e incentivi fiscali per il rilancio dell’economia pari a 1 punto di pil (145 miliardi di dollari) varato da Bush è troppo morbido e molto all’italiana – prevede un rimborso una tantum per tutti, ottenendo il risultato di non essere decisivo per le tasche di nessuno – per convincere i mercati, che poco si fidano di un’”anatra zoppa” (così si definisce il presidente alla fine del suo mandato). Tutto vero. Ma questo non significa, o quantomeno non ancora, che gli Usa siano in recessione. E comunque, una crisi pesante, anche se durasse davvero 4 trimestri come pronostica l’economista Nouriel Roudini (noto in Italia per un duro scontro che ebbe con Tremonti), facendo quindi peggio di quelle del 1991 e del 2001, non colpirà più di tanto i fondamentali – decisamente ancora solidi – dell’economia reale americana. Anche perché, è bene ricordarlo, l’origine di questa crisi è finanziaria, non industriale – come era invece quando scoppiò della bolla della new economy – e incide dal lato dei consumi più che da quello delle imprese. Le quali, invece, hanno la possibilità di avvantaggiarsi sia del dollaro debole, per rafforzare l’export, sia dei tagli del costo del denaro che la Fed ha già messo in conto, per fare investimenti. In secondo luogo, prima di drammatizzare è necessario ricordare che la crisi di una singola macroarea, pur importante come quella Usa, non è per forza decisiva; specialmente se c’è una parte del mondo, come l’Asia, che continua a viaggiare a un ritmo tra il 7 e l’11%, e il 65% della crescita del pil globale dipende proprio da quel continente, che costituisce una polizza assicurativa anti-recessione e anti-stagflazione per la capacità di mantenere ancora bassi i prezzi. “Prima l’Asia comprava debito, ora compra equity”, è la battuta che si sente fare ai piani alti delle banche d’affari per sottolineare la rapida mutazione dell’Oriente del mondo, che oggi si candida sempre di più a diventare il traino che spinge (e sostiene) l’economia reale. Diversa, necessariamente, è l’analisi dei mercati finanziari. Su quel fronte la crisi si trascina dalla scorsa estate, e a parte le sacrosante iniezioni di liquidità di Fed e Bce si fa fatica a indovinare la terapia giusta perché i governi e le stesse banche centrali non hanno trovato una risposta strutturale da dare al problema delle distorsioni introdotte dalla cosiddetta “finanza creativa”. Tutte le distorsioni regolatorie e le asimmetrie – da cui derivano gli arbitraggi e le speculazioni – dimostrano che quello che manca davvero è una governance globale dell’economia. D’altronde, se ancora oggi gli analisti consigliano di aspettare i prossimi dati trimestrali (specie delle banche, che si sospetta abbiano qualche scheletro da subprime nascosto nelle pieghe dei bilanci) per tornare ad investire, questo significa che il problema è più ampio di quanto finora si è visto.

Tutt’altro discorso, infine, bisogna fare per le Borse. Prendendo l’Italia come esempio, i crolli di ieri e dell’ultimo periodo – già nel 2007 l’indice Mibtel era sceso dell’8,3%, peggiore performance europea, riducendo la capitalizzazione complessiva da 779 a 731 miliardi di euro – scontano una lunga fase di tumultuosa crescita, spesso in controtendenza all’andamento dell’economia reale. Nei cinque anni di vacche grasse (dal 2002 allo stesso 2007 il consuntivo è +67%), infatti, il pil è cresciuto in media di un misero 0,8%. E non dissimili sono i dati di molte altre piazze europee, e in parte anche di quella americana. Questo significa che probabilmente per qualche mese ancora l’Orso la farà da padrone nelle Borse. Ma la cosa, vista la situazione di partenza, non potrà che essere, paradossalmente, salutare.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.