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Su Ricucci gli articoli son tutti uguali

Un’Italia incoerente che nausea

L’<i>affaire</i> imbavagliato nel conformistico. Preludio di un terremoto, o quiete di ricatti?

di Davide Giacalone - 20 aprile 2006

Provo volta stomaco nel leggere i mille articoli tutti uguali, il dileggiare moralistico dei commentatori che non sanno far altro che citare la moglie di Ricucci, vergare banalità del tipo “ha ballato una sola estate”, far riferimento ai Vanzina, non accorgendosi di essere loro i personaggi del generone conformista. Il problema non è Stefano Ricucci, ma un’Italia dimentica del diritto, della coerenza e del buon senso.
Secondo le nostre leggi il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio dell’indagato entro sei mesi dall’apertura delle indagini preliminari (art. 405 cpp), è considerata già un’eccezione che ci voglia un anno (art. 406), mentre la nostra normalità, l’ovvia tempistica cui tutti si adeguano, è quella delle eccezioni assolute, con richieste di rinvio che arrivano dopo anni dall’apertura delle indagini. A questo abbiamo fatto l’abitudine, ma è uno scandalo. Tanto più che per tempi così lunghi l’indagato può essere accusato di inquinare le prove, mentre, al contrario, se le prove ci sono dovrebbero già essere davanti ad un tribunale, e se non ci sono non si può aspettare che caschino dal cielo o piovano dal telefono. Ricucci non lo conosco, ma mi pare che si debba anche porre un limite all’eventuale stupidaggine: come fa uno ad essere accusato di avere delle talpe che lo informano sulle indagini e, al tempo stesso, farsi beccare al telefono mentre inquina le prove? O è incapace di intendere e volere, o i conti non tornano.
E non tornano. Perché l’estate scorsa il signor Ricucci era un pezzo (colorito) d’un ingranaggio più complesso, coinvolgente quelli che D’Alema aveva chiamato i “capitani coraggiosi”, a partire da Gnutti, e gli esponenti del vertice della finanza rossa, a partire da Consorte, con la copertura di Fazio ed il plauso di parte della maggioranza. Nel corso di un intero anno si sono svolti solo alcuni interrogatori, mentre ora, se capisco bene, Ricucci finisce in galera perché ha tentato di rivendere quel che gli era stato dissequestrato e restituito. Non ha senso, come non ha senso che oggi si ergano a maestri di morale quelli che non ebbero da ridire quando Fassino sostenne, su Il Sole 24 Ore, che i soldi degli “immobiliaristi” valevano quanto quelli di altri. Ed a tal proposito, una parolina sul Corriere della Sera.
Scalare la Rcs non è un reato, e se la proprietà riteneva e riterrà di non sottoporsi a tale rischio esiste una ed una sola via corretta, il delisting: mano al portafoglio si porta la società fuori dalla Borsa. Pretendere che una società quotata sia trattata come un’istituzione è arrogantemente demenziale. Le inchieste giudiziarie sulle scalate furono sponsorizzate da via Solferino, che sparò anche su Massimo D’Alema. Ora è sbocciato l’amore, fra il Corriere e D’Alema, facendone le spese prima Prodi e poi Ciampi. Gran bella cosa, l’amore, ma non volendo noi limitarci a reggere il moccolo, vorremmo far notare che temi e tempi della giustizia dovrebbero rispondere a criteri diversi da quelli, per così dire, editoriali. Motivo per cui speriamo che Ricucci sia processato al più presto, e se giudicato colpevole condannato. Affari suoi. Ma il resto è affare di tutti, per niente chiaro, preludio ad un gran terremoto o ad una quiete dei ricatti.

www.davidegiacalone.it

Pubblicato da Libero del 20 aprile 2006

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