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L’italianità sterile e la proposta di Scaroni

Un’idea per uscire dal declino

Della teoria degli headquarters dovremmo discutere. Non di querelle sciocche e inutili

di Enrico Cisnetto - 10 aprile 2007

Se invece di dividerci tra statalisti di ritorno e liberisti che parlano di un mercato che non c’è, o tra sostenitori dell’italianità quando comoda e tifosi degli stranieri perchè c’è un nemico da far fuori, approfittassimo del “caso Telecom” per ragionare in modo pragmatico su cosa serve all’Italia in questa fase storica, eviteremmo polemiche banali e faremmo qualcosa di positivo per uscire dal declino. In particolare, per esempio, sarebbe utile analizzare quella che un manager abituato a lavorare nelle multinazionali come Paolo Scaroni chiama la “teoria degli headquarters”. L’idea è semplice: nel capitalismo post-industriale un grande gruppo produce valore aggiunto per l’intero sistema economico non per quante unità produttive conta sul territorio, ma per l’insieme delle competenze che il suo “quartier generale” è in grado di mobilitare.

Parliamo del sapere tecnico, informatico, amministrativo, legale, finanziario di cui la “testa” di un gruppo ha bisogno, e che reperisce attraverso un stuolo di professionisti, di consulenti, di ricercatori, di società satellite. Un supporto tutto esterno, ma che a ben vedere fa parte integrante di quel gruppo e che contribuisce in modo determinante a formarne il dna, a costruirne la cultura imprenditoriale. D’altra parte, lo si è visto nei processi di delocalizzazione produttiva di questi ultimi anni: il decentramento delle manifatture in aree a basso costo del lavoro non solo non ha causato danni occupazionali, ma ha consentito di investire in risorse umane interne ed esterne alle imprese che fanno appunto riferimento al “cervello” dei gruppi che hanno scelto di separare la testa dal corpo aziendale. Anzi, ci sono paesi – si pensi all’Irlanda – che hanno messo al centro delle loro politiche economiche proprio la “conquista degli headquarters”, creando le condizioni giuste – prima di tutto fiscali e normative, ma anche relative alla flessibilità del mercato del lavoro e alla formazione del capitale umano – per attrarre i vertici di multinazionali.

Certo, nel caso di paesi di lingua inglese, o della Spagna per il Sudamerica, c’è un oggettivo vantaggio verso cui l’Italia, con una lingua solo sua e una diffusione dell’inglese drammaticamente bassa, non può competere. Viceversa, però, il nostro è un paese dove la famiglia di qualunque manager del mondo vorrebbe vivere (magari salvo pentirsene dopo aver constatato il livello dei nostri servizi, pubblici e privati). Questa della creazione di una sorta di “headquarters valley”, dunque, dovrebbe essere un’opzione strategica per l’Italia, che naturalmente comporterebbe scelte coerenti, prima di tutto di natura culturale – per esempio, l’inglese seconda lingua madre (altro che le specificità etniche!) – poi di carattere formativo – indirizzi scolastici e universitari che tengano conto delle necessità professionali dei “quartier generali” – e infine di tipo legislativo. Sarebbe una straordinaria occasione per ripensare l’intero impianto della nostra obsoleta pubblica amministrazione, ma anche per riconvertire verso servizi d’avanguardia un terziario privato dove di moderno c’è poco. E alla luce di questo disegno, la querelle sull’italianità – che, purtroppo, non ha più gambe su cui camminare – e sulla libertà di straniero, pensata come una resa, non avrebbe più motivo di essere.

Pubblicato su Il Gazzettino di domenica 9 aprile

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