Inutili le coalizioni forti ma troppo eterogenee
Un esempio per l’Italia
L’accordo Merkel-Schroeder? Un patto per governabilità e riforme. Che non guasterebbedi Davide Giacalone - 11 ottobre 2005
Da noi si discute, ed animatamente, di sistemi elettorali, ma pochi sembrano disposti a prestare l’orecchio a quel che succede in Germania. Dopo la riunificazione, fra Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Democratica (ai comunisti piaceva definirsi “democratici”, salvo deportare i dissidenti) Tedesca, per la prima volta la Germania sarà governata da una grande coalizione, ovvero dall’alleanza fra i socialdemocratici ed il centro cristiano. Se, invece, si considera la storia della Germania che democratica lo era veramente, la Rft, allora è la seconda volta.
La prima servì per compiere un passaggio storico: quando ancora si combatteva la guerra fredda i socialdemocratici, avendo ripudiato il marxismo con il congresso di Bad Godesberg, accedevano al governo della Repubblica, senza che questo facesse venire meno, anzi, nel tempo consolidò, il saldo ancoraggio atlantico del Paese. E la seconda, a che serve questa seconda volta?
Serve ad evitare che le divisioni politiche rendano impossibili quelle riforme di cui c’è bisogno per sfuggire alla crisi. E, si badi, quando scrivo “divisioni politiche” non intendo così indicare le beghe ed i bisticci, ma uno dei problemi più grandi cui oggi devono fare fronte le democrazie dell’Europa continentale, ovvero l’incapacità di raccogliere un consenso sufficiente, per quantità e durata, attorno ad un programma realmente riformatore, che per ciò stesso minaccia il presente dei privilegi e delle corporazioni, promettendo un futuro che, com’è noto, non vota. Il problema riguarda la Francia, la Germania e l’Italia.
Gerard Schroeder non ha perso le elezioni, perché ha saputo parlare all’elettorato che le riforme le vuole, ma è finito in minoranza perché gli ha voltato le spalle quell’elettorato di sinistra che pensa ancora si possano salvare lo stato sociale ed i “diritti dei lavoratori” senza tenere conto che il mondo è cambiato, sia dentro che fuori la Germania. Angela Merkel, che sarà la prima donna cancelliere, le elezioni non le ha vinte perché ha spaventato l’elettorato moderato che, anch’esso, vuole sperare che duri il ricco tran tran, e non ha entusiasmato quello che chiede cambiamenti strutturali, capaci di ridare spinta alla produzione di ricchezza. Se il giuoco politico fosse continuato tutto attorno a queste posizioni la Germania si sarebbe, a poco a poco, spenta e ripiegata.
La forza e la grandezza di una classe politica si vede in questi frangenti. Schroeder non ha neanche pensato all’ipotesi di utilizzare i voti alla propria sinistra, perché con quelli avrebbe vinto, ma non avrebbe governato. E la Merkel cede volentieri (credo) posti di governo ai socialdemocratici, perché così sarà più libera di fare quel che il suo predecessore non è riuscito a concludere. La lezione tedesca dice questo: lo scontro elettorale può essere durissimo, ma non serve a niente vincerlo con coalizioni non caratterizzate da una comune volontà di governo e, finita la conta dei voti, si passa ad occuparsi degli interessi del Paese, che sono gli stessi per socialdemocratici e cristianodemocratici.
Da dieci anni noi pratichiamo la regola opposta: formiamo coalizioni all’interno delle quali stipiamo tutto quanto sia contro l’avversario, fregandocene se idee e programmi sono diversi al punto da essere opposti, ed una volta votato si continua la battaglia propagandistica in Parlamento, senza uno straccio di collaborazione, un embrione di comune coscienza nazionale, in un comiziare quinquennale che punta dritto alla conta successiva. Con questo genere di tessuto politico si possono adottare i più diversi sistemi elettorali (in Germania c’è il proporzionale), ma il risultato non sarà mai esaltante.
La prima servì per compiere un passaggio storico: quando ancora si combatteva la guerra fredda i socialdemocratici, avendo ripudiato il marxismo con il congresso di Bad Godesberg, accedevano al governo della Repubblica, senza che questo facesse venire meno, anzi, nel tempo consolidò, il saldo ancoraggio atlantico del Paese. E la seconda, a che serve questa seconda volta?
Serve ad evitare che le divisioni politiche rendano impossibili quelle riforme di cui c’è bisogno per sfuggire alla crisi. E, si badi, quando scrivo “divisioni politiche” non intendo così indicare le beghe ed i bisticci, ma uno dei problemi più grandi cui oggi devono fare fronte le democrazie dell’Europa continentale, ovvero l’incapacità di raccogliere un consenso sufficiente, per quantità e durata, attorno ad un programma realmente riformatore, che per ciò stesso minaccia il presente dei privilegi e delle corporazioni, promettendo un futuro che, com’è noto, non vota. Il problema riguarda la Francia, la Germania e l’Italia.
Gerard Schroeder non ha perso le elezioni, perché ha saputo parlare all’elettorato che le riforme le vuole, ma è finito in minoranza perché gli ha voltato le spalle quell’elettorato di sinistra che pensa ancora si possano salvare lo stato sociale ed i “diritti dei lavoratori” senza tenere conto che il mondo è cambiato, sia dentro che fuori la Germania. Angela Merkel, che sarà la prima donna cancelliere, le elezioni non le ha vinte perché ha spaventato l’elettorato moderato che, anch’esso, vuole sperare che duri il ricco tran tran, e non ha entusiasmato quello che chiede cambiamenti strutturali, capaci di ridare spinta alla produzione di ricchezza. Se il giuoco politico fosse continuato tutto attorno a queste posizioni la Germania si sarebbe, a poco a poco, spenta e ripiegata.
La forza e la grandezza di una classe politica si vede in questi frangenti. Schroeder non ha neanche pensato all’ipotesi di utilizzare i voti alla propria sinistra, perché con quelli avrebbe vinto, ma non avrebbe governato. E la Merkel cede volentieri (credo) posti di governo ai socialdemocratici, perché così sarà più libera di fare quel che il suo predecessore non è riuscito a concludere. La lezione tedesca dice questo: lo scontro elettorale può essere durissimo, ma non serve a niente vincerlo con coalizioni non caratterizzate da una comune volontà di governo e, finita la conta dei voti, si passa ad occuparsi degli interessi del Paese, che sono gli stessi per socialdemocratici e cristianodemocratici.
Da dieci anni noi pratichiamo la regola opposta: formiamo coalizioni all’interno delle quali stipiamo tutto quanto sia contro l’avversario, fregandocene se idee e programmi sono diversi al punto da essere opposti, ed una volta votato si continua la battaglia propagandistica in Parlamento, senza uno straccio di collaborazione, un embrione di comune coscienza nazionale, in un comiziare quinquennale che punta dritto alla conta successiva. Con questo genere di tessuto politico si possono adottare i più diversi sistemi elettorali (in Germania c’è il proporzionale), ma il risultato non sarà mai esaltante.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.