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Quello che l’Economist non dice o dice a metà

Un declino (in) arrestabile?

L’insofferenza referendaria spiega ma non risolve

di Elio Di Caprio - 14 giugno 2011

Meglio togliersi di torno il fastidio di Berlusconi, il bunga bunga, le leggi ad personam, i comizi della Santanchè e finalmente tornare alle cose serie. E poi dobbiamo pure pagare di più l’acqua con stipendi e salari ridotti ai minimi termini e per sovrapprezzo mettere in pericolo le nostre vite e la nostra salute con le nuove centrali nucleari? La pancia degli italiani ha risposto attraverso i referendum, come ha risposto quando nel 1996, solo cinque anni fa, la demagogica promessa di eliminare l’ICI sulla prima casa consentì il colpo di coda del Cavaliere che riuscì all’ultimo momento ad insidiare con successo la parziale vittoria elettorale del centrosinistra di Prodi.

Nell’avvitarsi sempre più celere della crisi di sistema non si fa neppure più caso che alla deriva plebiscitaria a favore del Cavaliere, criticata più volte dalla sinistra, sta facendo seguito attraverso la pratica referendaria un’altra deriva plebiscitaria di negazione che questa volta la sinistra si guarda bene dal contestare.

Se il numero speciale dedicato recentemente dall’Economist al caso italiano prima dei referendum dovesse tener conto anche dei suoi risultati non si troverebbe spiazzato con un quadro di riferimento che è sempre lo stesso per quanto riguarda i fondamentali della nostra crisi da declino, ma profondamente cambiato nei sentimenti collettivi di insofferenza verso una classe politica che ha badato più a curare i propri interessi di sopravvivenza che a decidere o almeno a indicare le scelte possibili con annessi costi per uscire dalla crisi degli ultimi anni. E’ un’insofferenza trasversale che non salva neppure più i contenuti, ma va oltre nel rifiuto di essere presi in giro con annunci irrealizzabili accompagnati da una rappresentazione della realtà da pantomima, da gioco delle parti, incapace di offrire soluzioni a portata di mano, si tratti del Piano energetico o del Ponte sullo Stretto di cui nessuno parla più.

Le infinite polemiche sul berlusconismo e l’antiberlusconismo ed ora sui plebisciti pro o contro sono una narrazione insufficiente sui nostri mali antichi e nuovi se non si riesce a capire quel che è successo nell’ultimo decennio, lo stress al quale è stato sottoposto un Paese che all’improvviso si è trovato a dover maneggiare una moneta forte, a vivere come se fosse la Germania, ma con salari italiani. E’ un’esperienza collettiva, con le sue conseguenze, che dura da dieci anni, sia con i governi di Berlusconi che con quelli di centrosinistra variamente rappresentati, entrambi costretti ad un sostanziale immobilismo sempre addebitato ai vincoli di bilancio dovuti al pesante debito pubblico ereditato dalla cosiddetta Prima Repubblica, debito pubblico che già è pesato su due generazioni consecutive con poche speranze di rientro nel prossimo futuro. Poi si è aggiunta la crisi finanziaria mondiale. Meravigliarsi a questo punto che le pensioni minime portate da un governo di destra ad un milione di lire al mese non hanno lo stesso potere d’acquisto di quelle a 500 euro?

Meravigliarsi che le pensioni di nonni o di genitori spesso siano parzialmente assorbite dalle spese straordinarie di multe esagerate o di visite e medicinali non riconosciuti dal Servizio Sanitario? Meravigliarsi della precarietà da 1000 euro al mese e dell’eccessivo divario delle retribuzioni a favore dei settori privilegiati dopo anni di appiattimento salariale? Meravigliarsi che il centro nord sopravviva molto meglio del sud quando la coperta è diventata troppo corta?
La narrazione ridanciana sul bunga bunga, diventata un luogo comune persino sui media stranieri, può servire a distrarre ma non a tirarci fuori dai guai.

Cosa facciamo se una volta caduto Berlusconi e caduto assieme Tremonti viene meno la disciplina di bilancio, aumenta ancora di più la spesa pubblica e magari ci troviamo con un’inflazione superiore alla media europea? E’ quanto teme la sinistra del dopo-Berlusconi neppure cominciato. Nessun referendum servirebbe a raddrizzare la barca italiana e la sinistra lo sa bene, al di là della “legittima” soddisfazione di poter far fuori Berlusconi sull’onda delle proteste organizzate da partiti e movimenti non rappresentati in Parlamento.

Non è mai stato facile per gli osservatori stranieri e tanto meno per i supponenti commentatori della stampa anglosassone capire cosa bolle in profondità nella pancia e nella testa degli italiani, le analisi dell’Economist sono sempre state poco indulgenti verso la scapestrata sorella latina che va avanti nella “dolce vita” nonostante l’inadeguatezza della classe governante. Del resto è un fatto che mentre negli anni’80 la signora Tatcher in Gran Bretagna proseguiva imperterrita a tagliare e liberalizzare, da noi il debito pubblico aumentava in maniera esponenziale per tenere buone tutte le categorie.

Berlusconi era già considerato dall’Economist “unfit”, inadatto e sconveniente all’inizio, 17 anni fa, ma oggi il risultato d’immagine è ancora più amplificato dai nuovi mezzi di comunicazione in tempo reale, non c’è più bisogno per farsi un’idea del nostro Paese e di chi ci governa delle sofisticate analisi del settimanale inglese.

Ma quello che l’Economist non sa - anche se basterebbe andare a spulciare i sei o sette saggi pubblicati da Bruno Vespa sugli ultimi anni per capire qualcosa di più del teatrino italiano minuziosamente raccontato- e non può sapere è come sia diventato progressivamente “unfit” lo stesso sistema bipolare costruito attorno a Berlusconi con la connivenza di una sinistra orfana delle ideologie e incapace di adeguarsi ai tempi cambiati.

Abbiamo sì avuto dopo tanti anni, più che l’alternativa, l’alternanza tra una destra (immaginaria) e una sinistra altrettanto immaginaria. Il bipartitismo imperfetto necessitato dalla forte presenza del partito comunista nel dopoguerra ha fatto da prologo all’attuale bipolarismo imperfetto dell’ammucchiata che è stato prima sconfessato dai vertici e ora dalla base come dimostrato dall’ansia di partecipazione agli ultimi referendum.

Risulta però sempre più chiaro che l’insofferenza o il diniego non riguardano più e solo i contenuti referendari, la scelta nucleare imposta, il legittimo impedimento imposto, il trasporto privato dell’acqua imposto ma anche quello che c’è a monte, il bipolarismo imposto e la legge elettorale imposta. Certamente eliminare non vuol dire saper costruire o ricostruire quando persino i concetti di pubblico e di privato sono stati manomessi da una prassi sessantennale – la risposta ad alcuni referendum ce lo dimostra ampiamente - che ha identificato e confuso l’intervento pubblico con gli interessi dei partiti e quello privato con gli interessi irresponsabili e profittatori di singoli individui o di singole imprese.

Di strada ce n’è da fare per ricomporre lo spirito pubblico, gli strappi plebiscitari non sono risolutivi in sé ma almeno ci hanno dimostrato come una fortezza, quale appariva il berlusconismo all’indomani delle elezioni politiche, può rivelarsi come una gabbia nelle mani di un sedicente domatore, una cappa propagandistica da cui scappare appena possibile. Non è escluso che qualcosa di analogo, con la medesima logia, possa succedere un domani a una presunta nuova “fortezza” di sinistra che venisse alla luce grazie a questa legge elettorale. Aspetteremo la prossima puntata dell’Economist sul nostro declino annunciato?

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