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La vicenda Fiat

Un colpo a vuoto

Entrare nella competizione fra sistemi Paese richiede una rivoluzione che Marchionne può permettersi. Il governo no.

di Davide Giacalone - 23 settembre 2012

E’ stato un fallimento, del resto annunciato dalla sua stessa lunghezza. Dopo ore di riunione governo e Fiat hanno fatto sapere di avere dato vita ad un tavolo, una sede nella quale discutere del da farsi. Poco, molto poco. Fiat ha ribadito: restiamo in Italia. Ma significa ancora meno, perché non aveva mai detto il contrario e non dice ora come e per cosa.

Non si creda che i problemi nascano da incomprensioni o spigolosità personali, che non contano nulla, o quasi. I problemi sono oggettivi, e ieri non si è stati in grado di trovare una soluzione. Governo e Fiat non hanno adottato una condotta prudente, scambiandosi prima le carte e i rispettivi punti di vista, in modo da preparare le conclusioni dell’incontro a Palazzo Chigi. E’ un approccio diplomatico, utile ad evitare che la durata del negoziato segnali già il suo sostanziale fallimento. Hanno preferito, o si sono ritrovati costretti a giocare la partita mettendo a confronto le due squadre, quella dei ministri e quella degli amministratori di un’azienda privata, senza precostituire una via d’uscita. Forse è questa condizione procedurale, avente a che fare più con la sostanza che con il galateo, a restituire meglio la difficoltà in cui ci si trova.

Le lunghe trattative sindacali, per esempio, sono un rito che stancamente si ripete, ma destinato esclusivamente a far credere che la trattativa sia stata faticosa e complessa, sicché le conquiste vanno valutate come il frutto di una dura battaglia, e le sconfitte vanno ritenute ineluttabili, sebbene i propri combattenti si siano comportati con stoico eroismo.
Una commedia, insomma. Ma, appunto, funzionale a un risultato. Un costume, però, che non è quello delle imprese quando incontrano il governo. In questo caso le cose si gestiscono in modo assai diverso: i tecnici delle due parti mettono a punto il documento conclusivo, mentre i capi, dopo averlo approvato, sorseggiano il caffè, scambiano quattro chiacchiere e poi si recano sorridenti alla conferenza stampa. Scambiandosi attributi d’amicizia e stima. Qui, invece, le cose sono andate in maniera completamente difforme. E la ragione è nella sostanza.

Il governo vorrebbe che Fiat confermasse i propri piani d’investimento e consolidasse la propria presenza in Italia. Fiat vorrebbe che il governo fosse capace di creare le condizioni di mercato affinché sia possibile restare in Italia e investire. Il governo rimprovera a Fiat di badare solo ai propri interessi e venire meno alla parola data. Fiat risponde che gli interessi generali sono materia governativa, e mettendo Fiat nelle condizioni di chiudere la baracca non li si tutela di certo. Posizioni, queste, che non solo sono distanti, ma anche irrigidite dal rispecchiare, ciascuna, un pezzo di verità. Eppure il negoziato non si sarebbe dovuto incagliare, se non fosse che un ministro, Corrado Passera, ha ritenuto di dovere rimproverare a Fiat la decisione d’investire in Brasile anziché in Italia. Per Sergio Marchionne un invito a nozze, perché l’amministratore delegato di Fiat avrà anche mille difetti (compresa la moda del maglioncino, visto che fa ancora caldo), ma non si lascia mai sfuggire l’occasione per prendersi un vantaggio, quindi è saltato al collo di Passera dicendogli: se non ti sei distratto, se hai una qualche idea di quel che dici, ti faccio osservare che in Brasile mi hanno aiutato, mentre qui prendiamo solo botte: dal fisco, dagli oneri contributivi, dalla legislazione del lavoro, dalle sentenze che lo accompagnano e così via.

Il che suona anche paradossale, perché se c’è un’impresa che l’Italia ha aiutato e accudito, per anni e decenni, è proprio la Fiat. Solo che i soldi pubblici a Fiat sono serviti a coprire i rispettivi fallimenti.

Anziché rendere il paese più produttivo sono state utilizzati per coprire il deficit di produttività. Il governo ha scucito quattrini perché Fiat andasse ad aprire stabilimenti dove serviva lenire tensioni sociali, o soddisfare esigenze politiche, in pratica compiendo scelte che nulla avevano a che vedere con il mercato. O, se preferite, che si riferivano ad un mercato diverso da quello economico. Fiat, del resto, ha usato rottamazioni e cassa integrazione per coprire i propri errori gestionali, nel mentre la proprietà pompava ricchezza a sé destinata, non rinunciando nemmeno all’accumulazione presso conti anonimi e non fiscalizzati.
Un sodalizio, insomma, nel quale si ritrova la radice di quella malapianta che oggi soffoca il rifiorire dell’Italia. Eppure, anche questo va detto, quei soldi e quei comportamenti hanno accompagnato la storia della più grande industria meccanica d’Italia, non priva di allori. Nel mondo e dentro i confini nazionali.

Tutto questo, però, è storia, giacché la globalizzazione aveva spinto Fiat verso il fallimento e le regole dell’Unione europea avevano impedito i salvataggi. Marchionne s’è guardato attorno e ha scoperto che mentre tutti pensavano agli Stati Uniti come il paradiso della competizione e della non influenza statale nel mercato, quel che stava accadendo era l’esatto contrario, visto che gli americani facevano quel che gli europei negavano: davano soldi statali per salvare le imprese. Così Fiat s’è messa al vento di quelle politiche, spostando il proprio baricentro. E’ un fatto, e non c’è governo che possa non tenerne conto.
Dopo di che Marchionne ha fatto di tutto per chiudere la partita italiana, andando a chiedere ai lavoratori quel che i loro sindacati negavano. Solo che la risposta dei lavoratori è stata assai più seria, consapevole e globalizzata di quanto non sappiano rispondere sindacalisti e politici.
Quindi gli hanno detto: sì, facciamo come dici. Da lì è nata Fabbrica Italia. Solo che non basta il sì dei lavoratori, perché il problema non è mica solo il costo del lavoro e la sua reale produttività, calcolata per unità di prodotto. Il mondo conosce bene la concorrenza fiscale, materia nella quale l’Italia ha comportamenti autolesionisti.

Rimproverare a Fiat di fare i propri interessi è puerile. Che altro dovrebbe fare, un’impresa privata? Chiederle d’essere grata per i favori di un tempo è sciocco, come chiedere a un figlio di onorare le promesse del padre defunto. Diciamo che Fiat poteva e doveva essere l’occasione per cambiare la politica statale verso il mercato, uscendo dalla storia delle sovvenzioni (del resto impedite dall’Ue) ed entrando nella competizione fra sistemi Paese. Ma questo richiede una rivoluzione che Marchionne può permettersi. Il governo no.

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