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Mediobanca, Fiat, Impregilo

Un capitalismo penoso

E' forse in atto un depauperamento del capitalismo italiano? Due o tre esempi...

di Enrico Cisnetto - 03 agosto 2012

Che pena, il capitalismo italiano. Abituati come siamo a lanciare strali – meritati – contro la classe politica, rischiamo di non prestare sufficiente attenzione alle vicende, tanto incresciose quanto patetiche, che la cronaca finanziaria ci offre quotidianamente. L’ultima è il coinvolgimento come indagato dell’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, nelle indagini della procura di Milano, per un presunto accordo con Salvatore Ligresti ricavabile da un documento segreto, nel quale ci sarebbero le condizioni poste dalla famiglia Ligresti per dare il consenso alla fusione Unipol-Premafin-Fonsai. Una vicenda oscura, dove non si capisce chi salva chi, condita di passaggi volgari come una conversazione registrata di nascosto, ma che aveva determinato persino un cruento cambio di management alle Generali – dove in precedenza la giubilazione di Geronzi era stato il segnale che si era aperta la stagione della caccia – e che ora rischia di far saltare i vertici di Mediobanca. Già messi a dura prova da conti resi precari da potenziali minusvalenze sulle partecipazioni, e dall’assenza di uno straccio di strategie che ha reso gli scontri su Generali e Rcs pure contrapposizioni personalistiche. Si dirà: ma che novità, da sempre nel salotto buono si sono consumate sorde guerre di potere. Vero. Solo che prima c’era la posta in palio, ora in gioco c’è la sopravvivenza di realtà che in un mercato vero sarebbero già morte e sepolte, al massimo lo stipendio (d’oro) di qualcuno. E il salotto, già da tanto tempo non più “buono”, adesso è diventato uno squallido tinello con quattro cianfrusaglie come soprammobili. Secondo voi, con Cuccia vivo, si sarebbe mai potuta verificare una guerra illogica come quella in corso sul controllo di Impregilo? Dubito. Anche la vicenda Fiat lascia sconcertati. Ogni giorno ce n’è una, ma mai che sia l’annuncio di una nuova auto, di un nuovo progetto, di investimenti veri. Marchionne, naturalmente, è libero di mandare a quel paese chi ritiene, ma farlo con la Volkswagen perché usufruisce di denaro a minor costo (tutta l’industria tedesca è in queste condizioni) finisce per coinvolgere l’immagine e la politica dell’Italia, non solo della Fiat. Mentre mister maglioncino farebbe meglio a ragionare sul perché le auto tedesche, e in particolare quelle della Vw dirette concorrenti delle Fiat, hanno grande successo, e non solo per ragioni di costo, al contrario di quelle che produce lui. Sono andato a controllare quale fosse la quota di mercato della casa torinese quando nel giugno 2004 Marchionne divenne amministratore delegato per salvare Fiat dal disastro: in Ue era del 6,7% e in Italia del 26,6%. Adesso sono rispettivamente del 6,6% e del 30,3%: dove sta il successo del presunto risanatore? Il quale continua a negare di voler lasciare l’Italia, salvo comportarsi all’apposto. Se vuole portare la Fiat negli Usa, cosa perfettamente legittima, e per certi versi comprensibile, lo dica con chiarezza. Ma facciamola finita con questa inutile tensione che non giova a nessuno, e che certo non aiuta la nascita di un nuovo capitalismo, più moderno e responsabile. Così come non aiuta l’incomprensibile decisione della Finmeccanica di mettersi nella condizione di dover vendere i gioielli di famiglia – che sono un patrimonio dell’industria nazionale, e a maggior ragione visto il controllo pubblico del gruppo – per aver voluto “writeoffare” in un colpo solo tutti i contratti firmati negli ultimi anni, andando ben oltre una sana pulizia di bilancio. Così ora la polpa (buona, in certi casi ottima) delle partecipate Finmeccanica è nel mirino della giapponese Hitachi (Ansaldo Sts e Breda) e della tedesca Siemens (Ansaldo Energia) nonostante che la crisi abbia suonato anche alla sua porta. Si dice: ma non possiamo considerare ogni azienda strategica, e comunque non ce la facciamo a tenere tutto sotto le nostre bandiere. Vero. Leggo che le farmacie sono oggetto di una vera e propria incetta cinese. Scoccia, ma pazienza. Leggo (faccio un esempio tra tanti di questo tipo di dismissioni) che la provincia di Belluno ha fatto una gara per cedere il controllo del servizio di pullman denominato Dolomiti Bus, e l’ha vinta un gruppo francese. Amen. Ma le Ansaldo sono società capofila di filiere, e non sono affatto sicuro che il futuro di Finmeccanica debba essere solo quello del settore difesa. E comunque, se come ha detto il governo, andranno in “mani adatte”, cosa c’è di più adatto delle mani dei management che quelle aziende hanno risanato e messe all’onor del mondo, aiutate finanziariamente dalla Cdp? Prima di cedere a colossi stranieri che possono anche (per un po’) consolidare l’occupazione, ma certo portano la testa di quelle aziende altrove, non sarebbe meglio esperire tentativi di management buy out? Difendere presidi industriali ad alta tecnologia e di grandi dimensioni, rari in un capitalismo ancora troppo piccolo e poco orientato all’innovazione (con l’eccezione di chi esporta), è scelta politica decisiva per chi vuole fare davvero sviluppo. Il quale non è praticabile se è in atto un depauperamento del capitalismo nostrano. Fra un po’ avremo di nuovo il problema Alitalia, e non ci saranno nemmeno più i potenziali acquirenti di un tempo: che faremo? Parliamone, please.

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