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La pietra miliare posata dalla Cigl

Un atto di coraggio e lungimiranza

La svolta della Camusso è anche una vera sfida per il Pd

di Enrico Cisnetto - 01 luglio 2011

Meno male che c’è la Camusso. In attesa di sapere dalla Gazzetta Ufficiale quali saranno i contenuti reali degli interventi correttivi dei conti pubblici approvati ieri dal governo – di solito lo scarto con il testo passato in CdM è significativo – le buone notizie per la nostra economia, così rare da doversi considerare preziose, vengono, udite udite, dalla Cgil. Già, perché ad un primo sguardo più della manovra appare importante, anche sul piano politico, l’accordo con la Confindustria sui contratti e la rappresentanza sindacale sottoscritto unitariamente (non succedeva dal 2007) da Cgil-Cisl-Uil. Sia chiaro, non sottovaluto il fatto che sia passato il principio che occorre arrivare al pareggio di bilancio – scelta che il ministro Tremonti definisce al Financial Times “fine dell’era del deficit spending” – ma sappiamo che quest’anno ci si limiterà ad un intervento di 1,8 miliardi e che se l’ultimo anno di legislatura si dovesse proprio fare – cosa diventata ancor più improbabile di prima, della serie andiamo alle elezioni prima di dover affondare il coltello nella carne degli italiani – il governo sarebbe impegnato a tagliare altri 5,5 miliardi. Mentre il grosso della manovra (40 miliardi, l’85% del totale) è rinviato al biennio 2013-2014, cioè alla legislatura prossima anche se questa dovesse completarsi. Ora, è vero che quei 7,3 miliardi incasellati nel 2011-2012 sono sufficienti a rispettare la tabella di marcia verso l’azzeramento del deficit concordata con Bruxelles, perché Tremonti, per fortuna, ha già fatto un’ampia manovra nei primi tre anni della legislatura. Ma è altrettanto vero che, avendo il fucile dei mercati finanziari puntato addosso, anticipare una parte più consistente degli interventi ci avrebbe consentito di metterci maggiormente al riparo.

D’altra parte, Tremonti sapeva perfettamente che non si poteva andare oltre, perché sarebbe saltato o lui o il governo (o forse entrambi), e saggiamente ha fatto in modo che la responsabilità politica di una manovra tutta congiunturale fosse ben chiaramente di un Berlusconi ingolosito dall’idea populistica di poter dire che (per ora) non si mettono le mani nelle tasche degli italiani. Dunque, non vale neppure la pena di valutare come oggi ci s’impegna a tagliare 40 miliardi di deficit tra due anni, visto che il cambio di legislatura (e forse di governo) imporrà chissà quanti cambiamenti.

Lo stesso vale per la delega sulla riforma fiscale, che lascia impregiudicato il se, il quando e il come si interverrà sulle tasse. In più, proprio per la sua impostazione dilatoria, la manovra non è fatta di riforme strutturali, capaci di cambiare la dimensione e la natura della spesa pubblica e quindi di caratterizzare un progetto di politica economica di grande respiro che recuperi le risorse (200-300 miliardi) che servirebbero a perseguire la doppia impresa di risanare la finanza pubblica e di rilanciare lo sviluppo. Né si poteva pretenderlo, sia chiaro, in un contesto politico disarticolato e a fine corsa come questo (non parlo solo del governo e della maggioranza, ma dell’intero sistema politico e dunque della stagione chiamata Seconda Repubblica).

Insomma, archiviamo, almeno per il momento, la tanto attesa manovra. E vediamo cosa potrà darci, invece, l’atto di coraggio e lungimiranza della Camusso. Scelta che risulta comunque benemerita, anche se fosse stata determinata, come è probabile, solo dall’egoistica esigenza di togliere la Cgil dall’angolo in cui era finita per il combinato disposto dell’isolamento prodotto dal prevalere della linea Fiom (o se si vuole, dal non emergere di una linea nettamente diversa) e della capacità di far politica sindacale all’insegna del pragmatismo del duo Bonanni-Angeletti.

L’accordo interconfederale, infatti, consente finalmente di dar fiato a quella contrattazione aziendale che oggi è l’unico strumento con cui si possa coniugare la crescita della produttività (e dunque della competitività dell’intero sistema produttivo) con la necessità di favorire gli interessi concreti dei lavoratori. D’altra parte, la miglior conferma che la Camusso abbia fatto proprio bene a firmare quell’intesa sta nella reazione a dir poco rabbiosa della Fiom. Ed è, questa contrapposizione in seno alla Cgil, un seme positivo che potrebbe anche sbocciare nel Pd, a tutto vantaggio della governabilità del Paese. Perché se di fronte a Cremaschi e Landini che ne vogliono la testa, la Camusso sceglie la linea riformista, come fa Bersani a non fare altrettanto rispetto a Vendola e ai vari movimentisti? Il risultato delle amministrative, la scivolata radical-populista nei referendum e il riaffacciarsi sulla scena del “partito del no” in Val Susa sono tutti elementi che ci dicono come il problema sia all’ordine del giorno. Lo ha capito Di Pietro – cui va dato atto di intelligenza politica, anche se è tutto da vedere se riuscirà a tener testa agli sciagurati che ha portato con sé in parlamento – e ora la Camusso ha posato una pietra davvero miliare. In attesa della manovra, aspettiamo al varco Bersani.

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