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E i nodi Fiat vennero al pettine…

Un approccio troppo emergenziale

Marchionne è stato fin troppo celebrato e la politica industriale rimane sotto la sufficienza

di Enrico Cisnetto - 29 gennaio 2010

E i nodi vennero al pettine. Che nel “caso Fiat” appena scoppiato sono almeno tre e si chiamano Marchionne, politica industriale, Europa. L’oggetto del contendere è semplice: a fronte degli incentivi già dati e che ci si aspetta vengano rinnovati, il governo contesta alla Fiat sia la decisione di chiudere l’impianto di Termini Imerese sia quella di mettere in cassa integrazione per due settimane i dipendenti di tutti gli stabilimenti italiani. Scelte che la Fiat, in base al mercato, considera inevitabili e non negoziabili. A prima vista si può sostenere che entrambe le tesi hanno validi argomenti dalla loro.

E’ logico che il governo si preoccupi di mantenere in Italia quanti più volumi possibile delle auto Fiat – specie di fronte alla constatazione che la nostra produzione industriale è tornata ai livelli di un quarto di secolo fa – anche perché in Europa così fan tutti, da Sarkozy che impedisce a Renault di delocalizzare in Turchia alla Merkel che difende la teutonicità della Opel. Ma anche Marchionne ha ragione nel voler produrre a costi più bassi possibile e nel cercare di ottimizzare il carico occupazionale con le quote di mercato dei suoi modelli. Dunque? In realtà, le cose sono più complesse di come appaiono.

Da un lato, infatti, il problema è sorto da tempo, da quando cioè il rumore degli applausi a Marchionne “grande risanatore” ha coperto le stonature di una realtà dissonante rispetto allo spartito che veniva accreditato: la Fiat era uscita sì dalla crisi esiziale che l’aveva portata a un passo dal fallimento, ma non aveva ancora trovato un equilibrio, né produttivo e di mercato, né di conto economico.

Per questo a Marchionne è stato facile, dalla metà del 2007 in poi, attribuire alla crisi mondiale ogni responsabilità, riuscendo addirittura a rilanciare – incassandone qualcosa di non distante dalla santificazione – con l’operazione Chrysler. La stessa che ora gli consente di affermare che la Fiat non è più così italiana per cui “ciò che va bene alla Fiat va bene al Paese”, ma una multinazionale che necessariamente deve giocare su scala planetaria la sua partita nell’accentuata globalizzazione del mercato automobilistico.

Peccato, però, che coloro che hanno salutato il suo sbarco a Detroit alla stregua di Cristoforo Colombo – sottovalutando che nel piano originario c’era anche Opel, e che averla persa non poteva considerarsi solo un piccolo incidente di percorso – siano gli stessi che oggi gli tirano le orecchie. E, ancora: peccato, che nei 230 giorni che ci separano dal suo insediamento negli Usa, con tanto di peana di Obama, nessuno gli abbia chiesto un vero piano di integrazione Fiat-Chrysler. Piano che a tutt’oggi non c’è, e la cui mancanza mina alla base l’asserzione “non siamo più italiani, dunque non ci chiedete sacrifici nazionali”. Perché le due case non formano un gruppo, e rimanendo separate alla fine hanno come unico collante neanche la proprietà ma il solo Marchionne.

Il quale, anziché considerare tutto questo un elemento di debolezza da superare, lo vive come la polizza della sua autonomia totale – agevolato da una proprietà, gli eredi Agnelli, a dir poco debole – fino al punto da usare scarpe chiodate con governo e sindacati. Non si tratta tanto dell’accusa di intempestività nell’annunciare il ritorno del dividendo per gli azionisti qualche ora prima della cassa integrazione – semmai la congruità dei 237 milioni di “cedole” andrebbe vista in relazione agli 850 milioni di perdite accumulate nel 2009 – quanto nella mancata consapevolezza che mai nessun manager, e tanto meno in un contesto economico come questo che ha ridimensionato il liberismo, possa così platealmente ignorare le istituzioni e tutti gli altri stakeholder.

Ma le responsabilità non sono tutte a carico di Marchionne. Per esempio, può la politica industriale ridursi alla sola erogazione degli incentivi – che pure sono un buon strumento, visto che premiano il consumo e non le singole aziende – senza prevedere una programmazione strategica? L’approccio emergenziale si giustifica solo se inquadrato in una logica strutturale, ma nessun governo negli ultimi 20 anni è riuscito ad andare oltre. Inoltre, se il mercato dell’auto è saturo e nel mondo c’è sovraproduzione, difendere aprioristicamente stabilimenti e occupazione esistenti non è la soluzione. Dunque è indispensabile ragionare come minimo nella dimensione continentale, e questo significa negoziare in sede europea gli assetti compatibili. Certo, se ci fossero gli Stati Uniti d’Europa sarebbe tutto più facile, ma in mancanza si usi almeno la diplomazia economica.

Pubblicato da Il Foglio

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