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Public Policy

In risposta a Gamberale, Marcegaglia e Necci

Un accordo per le grandi opere

Un partito trasversale del sì per modernizzare una rete autostradale inadeguata

di Enrico Cisnetto - 28 febbraio 2006

Giusto e coraggioso, ma bisogna andare oltre. Il dibattito aperto su queste colonne da Vito Gamberale – poi ripreso da Emma Marcegaglia e Lorenzo Necci – intorno allo stato di salute dei trasporti in Italia, e in particolare sull’insufficienza della rete autostradale, sollecita a ragionare sull’opportunità politica e strategica della creazione di un vero e proprio “Partito del Sì alle Grandi Opere” (Psgo). Mi spiego meglio: l’amministratore delegato di Autostrade ha ragione quando sottolinea come il sistema dei trasporti sia una delle poche risorse del Paese, anche perché se l’Italia vuole partecipare alla costruzione del mercato unico europeo – ancora di là da venire, ma ineluttabile per ragioni dimensionali di potenzialità competitiva globale – non può che avere tutte le carte in regola dal punto di vista infrastrutturale. Gamberale, inoltre, dimostra sano pragmatismo quando individua come priorità quella dell’adeguamento della rete autostradale, fondamentale per il traffico gommato, ossia per l’80% dell’attuale mercato nazionale.

Contrariamente alla teoria economica, che indica come più efficace la rotaia piuttosto che la gomma, le politiche condotte negli ultimi decenni in Italia da una parte hanno favorito l’auto al treno, anche perché scoraggiate dalle sistematiche proteste locali e ambientaliste (come quella del popolo “no Tav” in Val di Susa), ma dall’altra non hanno realizzato strade e autostrade adatte ad ospitare a sufficienza il parco viaggiante dei veicoli a motore, nostrano e turistico.

Comunque, è inutile piangere sul latte versato. Occorre ragionare partendo dal concetto che mentre il rapporto tra il numero dei treni e quello dei chilometri di rotaie tende nell’ultimo mezzo secolo alla stabilità, quello tra veicoli a motore circolanti e chilometri delle strade italiane aumenta in modo esponenziale. Mentre dal 1945 al 1995 le strade sono aumentate del 79% (da 170.591 a 306.177 km.) e le ferrovie del 42,3% (da 11.202 a 15.939), le autovetture circolanti nello stesso periodo sono quasi centuplicate, passando da 342.021 (una vettura ogni 82 abitanti) a quasi 30 milioni (una vettura ogni due abitanti). Ciò significa che oggi il surplus dei veicoli (in tutto quasi 40 milioni), rispetto alle strade, rappresenta ancora la vera emergenza. Anche perché, considerati i tempi e i costi di ultimazione del progetto ferroviario dell’alta velocità (realizzato da governi di colore diverso), non si può neanche immaginare che in un futuro a medio termine il traffico su gomma venga assorbito in maniera considerevole da quello su rotaia.

Risolvere o arginare il problema trasporti gestendo al meglio le strade, comunque, non basta. La “questione infrastrutture” della mobilità ha bisogno di un progetto organico di grandi opere pubbliche, basato sulla sinergia logistica delle modalità, piuttosto che su quella assai sbandierata dei mezzi utilizzati. L’intermodalità, quindi, deve essere intesa in senso progettuale, in modo da costruire con i limitati mezzi di spesa a disposizione (magari ricorrendo al project financing, oggi desueto) quei chilometri di autostrade che consentano di “agganciare” alla rete gommata porti, aeroporti e snodi ferroviari.

Recenti studi hanno quantificato che il costo eccessivo della mobilità interdisciplinare delle persone e delle merci è pari a due punti di pil, e peggio ancora, supera del 40% quello della media Ue. Ciò significa, da un lato, che in questi decenni i governi hanno operato sui trasporti poco e male, mentre dall’altro che il gioco anche economico (oltre che strategico), vale davvero la candela, e sarebbe il caso di iniziare la partita. Fa bene, quindi, la vicepresidente di Confindustria, quando si preoccupa perché il pendolo decisionale della politica ha permesso di accumulare un gap infrastrutturale tale da rischiare la paralisi del sistema di mobilità italiano. Tra noi e i nostri partner continentali, ormai, corre un gap ben più largo della frontiera naturale delle Alpi. Secondo un’indagine del Cnel, il nostro Paese è penultimo, sui quindici dell’Ue – solo prima della Spagna, che comunque corre come un treno – con un indice di dotazione infrastrutturale di 95, contro i 101 della Francia, i 115 della Germania e i 117 del Regno Unito. Confindustria stessa ha di recente rilevato che gli investimenti italiani in opere pubbliche non riescono da anni a superare l’1,5% del pil, contro il 2,3% francese, il 2,7% tedesco e il 3,7% spagnolo.

Di fronte a questi dati non basta cercare di recuperare, ma occorre necessariamente fare un salto in avanti, frutto obbligato del coraggio politico. Vale la pena, quindi, di lanciare in campagna elettorale l’idea della creazione di un partito trasversale del Sì, che come unico e ambizioso obiettivo abbia la realizzazione di un progetto organico di grandi opere, appunto, non solo materiali (come quelle relative ai trasporti), ma anche immateriali (anzitutto digitali). Un partito basato su un’ampia adesione parlamentare, capace di superare le logiche di schieramento per almeno tre ragioni fondamentali. Primo: l’infrastrutturazione dispiega risorse talmente ingenti che richiede per sua natura un consenso molto ampio. Secondo: il progetto abbraccia un arco temporale più lungo di una singola legislatura e dunque deve essere tutelato dai cambiamenti delle maggioranze parlamentari. Terzo: per evitare che eventuali proteste di piazza diventino forme occulte di veto politico, bisogna che la formazione trasversale abbia la forza e si assuma la responsabilità di spiegare direttamente alle popolazioni coinvolte la logica delle scelte fatte, senza che questo diventi motivo per una ridondante dialettica senza sbocco.

Sfido i riformisti di entrambi gli schieramenti, e a maggior ragione quelli terzisti, a costituire il Psgo. Facessero proseliti, il Paese tornerebbe ad avere un futuro.

Pubblicato sul Riformista del 25 febbraio 2005

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