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Le pressioni americane

UE e Fmi

L'importanza del ruolo dell'Italia dall'altra parte dell'Atlantico

di Davide Giacalone - 02 gennaio 2012

Il trascorrere del capodanno non ha cambiato nulla, ma l’avere iniziato il 2012 rende ancor più vicina la resa dei conti, per l’euro. Quindi anche per l’Italia. L’anno decisivo non è più da venire, è in corso. La strada migliore, per noi e per l’Unione europea, è chiara: i debiti nazionali devono essere federalizzati, sia pure con sistemi che non smarriscano la responsabilità di ciascuno nel ripagarli. Il debito pubblico non è un dato il cui rilievo sul prodotto, il pil, sia tale da determinare la sorte di stati e popoli, e, anzi, la storia restituisce esempi plurimi di debiti altissimi e non meno significativo benessere e influenza politica, ma non con l’euro, non con questo euro, perché la moneta unica, divenuta valuta straniera per tutti, favorisce il massacro di quanti sono irragionevolmente chiamati a pagare interessi impossibili.

Tale via, però, è ostruita dalla corta visione politica di taluni governanti europei, oltre che dalla maledizione di cicli elettorali asincroni. Speriamo la cosa cambi, ma il tempo sprecato è già troppo. Chi, fin qui, ha avuto nei nostri confronti un atteggiamento serio e rispettoso, consapevole dei problemi, ma anche attento al ruolo che l’Italia gioca nel mondo, è l’amministrazione statunitense. E’ un punto rilevante. Un dato positivo, specie per chi, come me, ha considera indivisibile la nostra sorte da quella occidentale, quindi quella europea da quella atlantica. Gli Stati Uniti sono un fratello con cui si possono discutere interessi e avere idee diverse, ma senza mai dimenticare la comunanza d’interessi e idee. Ebbene, il governo di quel Paese era stato chiaro nel dire che il cambio di governo, nel nostro, non avrebbe modificato di un dito i problemi con cui fare i conti.

Tale era anche la nostra opinione, maturata nella consapevolezza che il governo Berlusconi era comunque finito da tempo: dilaniato dai contrasti interni e sterilizzato dal non avere realizzato riforme indispensabili. L’idea che la sua caduta, però, fosse un bene in sé, che tolto di mezzo quel leader politico si sarebbe già fatta la gran parte del lavoro, era un’illusione, quando non un imbroglio. E lo dicemmo. Fin da quando la crisi dei debiti sovrani, quindi la speculazione che ha reso immeritatamente famoso lo “spread”, ha traversato l’Atlantico, dopo un luglio terribile, nel corso del quale la presidenza statunitense dovette piatire l’innalzamento del tetto del debito pubblico, altrimenti andando incontro ad una specie d’allucinante default politico, fin da quel momento gli statunitensi premono perché l’Italia lasci intervenire il Fondo Monetario Internazionale. Un prestito di lungo periodo, costoso dal punto di vista interno (per i tagli che comporterebbe), ma salvifico dal punto di vista internazionale. Eppure quella non può essere una soluzione, o, almeno, lo sarebbe solo in caso di disperazione.

L’intervento del Fmi segnerebbe la fine dell’euro. Ed è anche questo, del resto, il motivo per cui lo zio Sam preme. Ma l’Italia non può e non deve essere il punto d’ingresso di questo equino troiano, giacché la nostra vocazione europeista non è meno marcata del nostro interesse atlantico. Del resto, gli amici americani hanno commesso un grave errore prestandosi, consapevolmente o per sfortunata coincidenza, all’operazione che ha fatto fuori il precedente direttore del fondo, lasciando che a sostituirlo fosse un ministro del governo francese. Nessuno può essere così ingenuo da credere che quella partita abbia cambiato solo gli equilibri francesi, eliminando un possibile, e forte, candidato alla presidenza.

Quella vicenda riverbera ben oltre i suoi effetti: Strauss-Khan era ben consapevole dei difetti strutturali dell’euro, mentre Lagarde è un soggetto politico che ha condiviso la pessima scelta francese, destinata (senza successo) a salvare gli interessi di un Paese a dispetto di quelli della moneta unica. Chi oggi guida il Fmi ha ieri coperto l’asse della pasticceria Sarkel, che è il vero colpevole di una crisi che rischia di cancellare un processo d’integrazione che va avanti dalla fine della seconda guerra mondiale. Delle pressioni statunitensi, però, si deve cogliere e valorizzare il lato positivo, perché nascono dalla consapevolezza che l’Italia ha non solo un ruolo importante, ma anche diverso da quello di altri.

L’amministrazione Obama ha commesso qualche leggerezza, sulle coste nord dell’Africa. La lunga solfa delle primavere ha lasciato la scena all’inverno dei dispotismi, per giunta a maggiore influenza islamica. Se si pensava di fermarne l’espansione si deve prendere atto d’avere fallito. L’Italia ha un peso, in questa parte del mondo, e sebbene la sua politica estera recente sia stata tutt’altro che brillante, sebbene sia mancato il coraggio di dire quel che si pensava e s’è preferito accodarsi a quanti soffiavano sul fuoco delle guerre civili, comunque è chiaro che la nostra posizione era diversa. E non è poco. Senza dimenticare che il nostro ruolo nella Nato è decisivo, sia per coerenza di comportamenti che per collocazione geografica.

Noi le guerre atlanticamente condivise non le abbiamo solo pagate, le abbiamo fatte. E i nostri militari sono motivo d’orgoglio per preparazione, come anche la nostra diplomazia. Nulla a che vedere con chi s’è sottratto, chi ha cincischiato e chi s’è ritirato. Questi sono elementi di forza, consustanziali alla nostra storia. E’ importantissimo che gli Usa li riconoscano, sarebbe manicomiale fossimo noi a dimenticarli. Non bastano a reggere il peso del Fmi, ma avanzano perché nessuno creda di poterci dare lezioni su come si sta al mondo.

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