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La contrattazione collettiva non ha più senso

Tute blu, il sindacato non funziona

Il contratto dei metalmeccanici è uno dei pochi per cui ancora si scioperi. Perché?

di Alessandra Servidori - 20 gennaio 2006

Ai lavoratori metalmeccanici, in tutta onestà, nulla può essere rimproverato. Sono loro coloro che “fanno girare le macchine”, che producono gran parte della ricchezza che viene impiegata a favore della collettività. E che però faticano per far quadrare i loro bilanci familiari coi magri stipendi che trovano in busta paga. Ma è veramente triste constatare che una gloriosa categoria come la loro, che è la stessa che con le sue lotte, in altri tempi, ha concorso a cambiare la storia del Paese e che ha dato al movimento sindacale dirigenti tra i più prestigiosi, tenti di concludere la propria vertenza per il rinnovo contrattuale sul terreno dell’ordine pubblico, grazie al blocco di autostrade e stazioni ferroviarie (peraltro, solamente laddove vi sono le condizioni organizzative per riuscire a farlo). Quando un esercito è in difficoltà non basta prendersela con gli avversari: nel nostro caso, con la Federmeccanica (anche essa “punta di diamante” dello schieramento confindustriale).

Si sono concluse le trattative, e, per fortuna, il contratto è stato rinnovato, ma bisogna trovare il coraggio di riconoscere e denunciare anche gli errori di quello stato maggiore sindacale che non ha saputo formulare adeguatamente i piani di battaglia e che ha rischiato di mandare allo sbaraglio centinaia di migliaia di lavoratori. Le tute blu che hanno scioperato e scagliato uova contro i vetri del “palazzo dei padroni”, che si sono sedute sui binari alla stazione di Bologna, in mezzo a un tripudio di bandiere, sono certamente autorizzate a scaricare tutte le colpe della loro situazione sui datori di lavoro, sul Governo di centro-destra, sulla globalizzazione e quant’altro. Ma dovranno pur porsi una domanda: per quali motivi, in questi ultimi mesi, sono stati rinnovati molti contratti (anche nei settori privati e dell’industria) spesso senza dover ricorrere allo sciopero o comunque con una conflittualità molto bassa? Come mai, dal 1993 (quando fu stipulato quel Patto che definì le regole delle relazioni industriali) ad oggi, le vertenze contrattuali sono rimaste in un contesto di litigiosità assolutamente fisiologica, tranne che nella categoria dei metalmeccanici? Perché quei criteri che sono stati ritenuti adeguati a stabilire le dinamiche salariali di un’operaia tessile o di una commessa di un supermarket non sono accettati quando si tratta delle tute blu? La risposta è che i gruppi dirigenti delle federazioni di categoria (quegli stessi che, da parecchi anni, non sono in grado di gestire unitariamente la politica contrattuale) hanno ritrovato un impegno unitario sulla base di una piattaforma che viola l’accordo triangolare del 1993. I contenuti di quell’intesa (la quale – lo ripetiamo – ha normalizzato le relazioni industriali consentendo, nel contempo, la salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni) prevedono due livelli di contrattazione, uno nazionale, l’altro decentrato: il primo ha il compito di adeguare, in linea di massima, i salari all’inflazione; il secondo deve compensare gli incrementi di produttività. L’aumento retributivo richiesto nel carnet rivendicativo non risponde a tali parametri; allo stesso modo, non trova alcun appiglio nelle regole la pretesa di riconoscere, a livello nazionale, un ulteriore aumento (a forfait) per le imprese in cui non si attui la contrattazione articolata.

Il fatto è che l’attuale struttura contrattuale, vecchia di quarant’anni, è ormai delegittimata non già dai padroni, ma dalle realtà produttive in rapida trasformazione. Non ha più senso voler conservare un’unica contrattazione nazionale – divenuta, nei fatti, una “camicia di forza”, un modello di unità solo teorica ed ideologica per una categoria tanto differenziata al proprio interno – insieme ad una prassi di iniziativa decentrata che risulta essere, sempre più, un dato elitario, riguardante, bene che vada, un terzo dei lavoratori interessati. E’ necessario diversificare e decentrare la contrattazione, anche sul piano territoriale. Basta leggere quanto la Svimez (che di problemi del Sud se ne intende) suggerisce in proposito: occorre “trovare nuove modalità – scrive - con cui rendere compatibili i meccanismi regolativi centralizzati a tutela dei diritti generali dei lavoratori con strumenti di regolazione flessibile a livello decentrato che sostengano le imprese nel loro sforzo di competere sui mercati concorrenziali”. I sindacati dei metalmeccanici, invece, pur di conquistare il massimo possibile a livello nazionale sono disposti ad prolungare – in tempi di trasformazioni frequenti e repentine – la durata del contratto, per rinnovarlo, a questo punto, “ad ogni morte di Papa”. Quanto, poi, alle differenze che separano le richieste di Fim, Fiom e Uilm (avanzate, per giunta, in tempi di serie difficoltà economiche) dalla controproposte della Federmeccanica (e all’atteggiamento dei media che tendono a minimizzare queste ultime), il tavolo della trattativa ha trovato una intesa decorosa, ma è bene ricordare i meccanismi perversi che trasformano costi pesanti per i datori in buste paga leggere: fatta uguale a 100 la retribuzione lorda del lavoratore, l’onere complessivo per l’impresa è pari a 145, mentre al netto, per il dipendente, rimane un ammontare di 72. E un sindacato che non sa evolvere la sua strategia chi rappresenta e soprattutto a cosa serve?

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