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Public Policy

Le legge di Stabilità

Turarsi il naso

Le strette ma (forse) meno stabili intese. L'esempio della Germania. Necessità e speranza.

di Enrico Cisnetto - 29 novembre 2013

Un amico mi ha chiesto: “se fossi un parlamentare, voteresti la legge di stabilità?”. Confesso che ho preso tempo, prima di rispondere. Intanto: quale legge? Il testo uscito settimane fa dal consiglio dei ministri o le tante versioni stravolte dagli emendamenti? O il testo del maxi-emendamento su cui il governo metterà la fiducia (dopo aver negato che lo avrebbe mai fatto)? Quando vedi che al Senato nel maxiemendamento viene modificato e passa un emendamento sulle sigarette elettroniche precedentemente approvato in commissione, ti viene da pensare che sia possibile qualsiasi operazione, anche la più incredibile. Tipo che arrivi alla Camera un testo diverso da quello uscito dal Senato, come si vocifera in queste ore. Altra distinzione: voterei la manovra o la fiducia al governo? Perché c’è una bella differenza, tra le due cose. Per esempio, la rinata Forza Italia vota contro per esprimere sfiducia al governo (per via della decadenza di Berlusconi) o perché giudica negativamente i contenuti della legge? È evidente che dice per il secondo motivo ma in realtà è per il primo. Io, per esempio, sarei per fare il ragionamento opposto: la manovra è quantomeno priva di appeal, ma far cadere il governo è peggio. Infine c’è la questione dei confini della legge: dopo il passaggio al Senato, l’ottima agenzia di stampa Public Policy, leggendo le tabelle del nuovo testo approvato nella notte a Palazzo Madama, ha calcolato che è salita di oltre 2,6 miliardi la portata della legge di stabilità per il 2014 (da 12,4 a più di 15 miliardi), di cui 1,2 miliardi di maggiori entrate e 1,5 di minori spese. Così il saldo migliora di quasi 175 milioni e l’impatto sull’indebitamento migliora scendendo a circa 2,5 miliardi. Numeri su cui, immagino, il governo potrà cominciare a ricostruire il consenso perduto di Bruxelles. Il che è un bene per un verso ma un male per un altro, considerato che tutto questo non aiuta certo a rendere “di sviluppo” la manovra.

Detto questo, immagino vi chiederete cosa alla fine abbia risposto al mio interlocutore. Ho rispolverato il vecchio approccio montanelliano, che peraltro non mi è mai appartenuto: “mi turo il naso e voto sì”. Conscio che, pur non essendo la summa di tutti i mali possibili e immaginabili, non è neppure quel che serve ad un Paese bisognoso della fiducia che si sprigionerebbe da una manovra coraggiosa più ancora che delle risorse materiali che una manovra “vera” avrebbe potuto tirar fuori. Ma altrettanto conscio che prima di tutto l’Italia deve uscire dall’emergenza politica e istituzionale figlia del fallimento della Seconda Repubblica, e che questo governo, specie ora che è passato da “larghe ma fragili intese” a “più strette ma (forse) meno instabili intese”, è l’unica risorsa che abbiamo – ci piaccia o non ci piaccia – per traghettarci fuori dalle rovine di questo maledetto ventennio. Nella convinzione che andare alle elezioni senza che preventivamente si sia consumata fino in fondo la frantumazione delle forze politiche e delle alleanze che hanno caratterizzato questi anni, e su cui giustamente è caduta la condanna inappellabile della stragrande maggioranza degli italiani, significherebbe lasciare agli elettori il compito di “finire il lavoro” già iniziato con il castigo inflitto a Pd e Pdl nel febbraio scorso. Occorre tempo, perché si macinino gli assetti attuali – che pervicacemente tentano di resistere nonostante l’avvertimento delle ultime elezioni, nell’infondata speranza che ci sia un’altra chance – e perché nascano nuovi soggetti e nuove leadership.

Certo, sarebbe meglio se questo tempo fosse riempito con maggiore acume e miglior risultato. Già qualche settimana fa, in questo stesso spazio, avevo segnalato con apprezzamento la “lentezza” con cui in Germania, senza nessuna polemica di stile italico, tardava a nascere il governo di “grande coalizione” che gli elettori tedeschi, pur tributando un grande successo alla Merkel, hanno voluto che democristiani e socialdemocratici (ri)facessero. Ora apprendiamo che il lavoro di preparazione del programma, racchiuso in ben 185 pagine fitte di impegni scritti senza margini di ambiguità, è terminato e che dopo il necessario passaggio di consultazione degli iscritti (da loro i partiti non sono stati buttati nella pattumiera) partirà un governo forte e coeso, che nessuno si sognerà di definire “anomalo”. Così avremmo dovuto fare anche noi, il giorno dopo il risultato elettorale. Invece prima abbiamo perso due mesi appresso all’idea bersaniana che il Pd avrebbe dovuto convincere i pentastellati ad evitargli l’infamia della coabitazione con Berlusconi. Cosa per fortuna impossibile, perché se solo lo fosse stata, possibile, sarebbe stata una tragedia. Poi, dopo la rielezione di Napolitano, tutti si sono obtorto collo piegati all’idea delle larghe intese, ma con un sacco di volpi sotto le ascelle. In queste condizioni, per il governo risultare al tempo steso indispensabile e deludente è stato un tutt’uno.

Ora leggo che Alfano vorrebbe, dopo il congresso del Pd – a proposito, faccio voto che succeda cosa analoga a quella successa nella sponda opposta, così il “decommissioning” della Seconda Repubblica accelera – stipulare un patto per almeno il 2014. Meglio tardi che mai.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.