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L’Economist “né con Prodi né con Berlusconi”

Troppi rinvii condannano al declino

La riforma del tfr lo dimostra: i nostri politici sono incapaci di prendere decisioni

di Enrico Cisnetto - 25 novembre 2005

Quando non è più possibile rinviare le decisioni, si rinviano le applicazioni. Così le riforme vengono approvate oggi per andare in vigore tra un paio d’anni. Tanto, non c’è fretta. E magari la matassa se la sbroglierà il governo successivo.

Questo è ciò che è successo con la riforma del tfr, licenziata ieri dal Consiglio dei ministri dopo quasi due anni che la delega era stata data dal parlamento al titolare del Welfare, e dopo il rinvio di un paio di mesi fa che aveva fatto minacciare a Maroni le dimissioni. Come quella delle pensioni, anche questa sul trattamento di fine rapporto andrà in vigore solo nel 2008: una riforma che interessa 16 milioni di lavoratori e 13 miliardi di euro. In due anni di trattative, Maroni ha dovuto cambiare più volte la bozza della legge, facendo il gioco dei quattro cantoni per accontentare i sindacati e la Confindustria, e nello stesso tempo cercando di non scontentare troppo le banche e le assicurazioni.

In ogni caso, la riforma del tfr va finalmente in porto, ed è meglio così. Perché il secondo pilastro pensionistico è fondamentale per un sistema previdenziale che, nel passaggio dal retributivo al contributivo, rischia di mettere in difficoltà molti lavoratori. Ed è andata in porto tra interessi diversi in gioco, differenti punti di vista, legittime ambizioni di far prevalere il proprio tornaconto su quello altrui. Tutto normale, in una democrazia.

L’anomalia, invece, è che ora tutti dicono di aver vinto: il ministro Maroni, perché il testo approvato è il suo; la Confindustria, perché era per lo schema anti-assicurazioni; ma anche l’Ania, che avrà tutto il tempo per rivendicare parità di trattamento tra i fondi aperti assicurativi e quelli chiusi sindacali. Gli unici ad aver alzato un po’ la voce sono i sindacati, e francamente si fatica a capirne il motivo, considerato che il titolare del Welfare ha lavorato alla riforma in pieno accordo con Cgil-Cisl-Uil, e che saranno i sindacati a gestire i fondi dei lavoratori, come semplici “scatole” (non investono sul mercato azionario, ma lo fanno fare a sim, assicurazioni e banche). Sarebbe una partita di giro, se non fosse che comunque i fondi chiusi si prendono una percentuale per il disturbo.

Le assicurazioni, invece, con la loro (perfettamente legittima) attività di lobbying, reclamavano “concorrenza libera” tra i vari tipi di fondi, e che tutto il tfr venisse trasferito ai fondi aperti, come era scritto nella delega a Maroni licenziata dal Parlamento. Invece, il testo approvato ieri prevede che, in caso di scelta a favore dei fondi aperti, quella percentuale di tfr versato dall’azienda (il 20% del totale) rimanga in azienda. Così com’è, la riforma non assicura quindi la piena concorrenza dal lato dell’offerta, ma favorisce una parte in causa, i sindacati, salvo che in due anni cambi tutto.

Ma la vicenda tfr induce ad una riflessione politica più generale: se ce n’era bisogno, è l’ennesima dimostrazione che il “bipolarismo all’italiana” non funziona. Perché dà vita a coalizioni così eterogenee, per cultura ed interessi, che poi risultano troppo divise al loro interno per governare. Così, di fronte a mediazioni impossibili, si finisce per rinviare, magari con l’astuzia di provvedimenti a tempo differito, che consentono di sbandierare riforme che sono tali solo formalmente. E questo vale sia per il centrodestra che per il centrosinistra. Tanto è vero che Standard & Poor’s, quando ha rivisto da stabili a negative le prospettive del nostro Paese, tra i motivi del declassamento ha messo anche le divisioni politiche all’interno sia della maggioranza che dell’opposizione. E anche l’Economist, che veniva sbandierato dal centrosinistra quando titolava che Berlusconi era unfit (inadatto) a governare l’Italia, oggi dice che nessuno dei due poli offre molte speranze a un Paese bisognoso di grandi e dolorose riforme. Insomma, l’Economist che non sta “né con Prodi né con Berlusconi” ci dice che ci saranno molte vicende simili a quella del tfr anche nell’eventuale prossimo governo di centrosinistra. Perché l’incapacità di individuare l’interesse generale tra i tanti interessi particolari è un difetto congenito della nostra classe politica. In altri Paesi se c’è un problema, lo si affronta. Da noi, lo si rinvia. Perché poi stupirsi se, a furia di accumulare problemi irrisolti, l’Italia è in pieno declino?

Pubblicato sul Gazzettino del 25 novembre 2005

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