Eni, Enel e Finmeccanica e non solo
Tra Stato e mercato meglio il pragmatismo
Il Governo vara un pacchetto di dismissioni pubbliche per 12 miliardi. Ma cosa e strategico e cosa no?di Enrico Cisnetto - 22 novembre 2013
In Italia quando non si sa più cosa fare di fronte a problemi economici che appaiono insormontabili, si allestiscono dibattiti sulla presunta dicotomia “Stato-mercato” e, di conseguenza, si approntano privatizzazioni abborracciate. È successo quando l’Italia dovette guadagnarsi l’ingresso nell’euro – e fu un disastro, Telecom docet – e sta per ri-succedere adesso, di fronte ad un’Europa che non si fida dei nostri impegni di risanamento finanziario e al cospetto di un Paese che non riesce a rialzarsi.
Il copione è sempre lo stesso: gli economisti liberisti scrivono sui grandi giornali la loro indignazione perché ci sono ancora molte aziende in mano pubblica; i politici deboli non resistono alle critiche – specie se la tirata d’orecchie, ancorché liberista, viene da sinistra (sic) – ma si preoccupano di perdere potere reale. Risultato: si fanno scelte affannose che producono operazioni pasticciate, parziali, che non accontentano né i mercatisti né gli statalisti. Anche questa volta si rischia che vada così. Osservate la sequenza: Giavazzi – sempre lui, dimentico che durante la crisi finanziaria, di fronte alla nazionalizzazione delle banche inglesi e all’interventismo americano, aveva ammainato le bandiere liberiste – scrive sul Corriere una reprimenda sul fatto che lo Stato usa Cdp per fare quelle che lui chiama “finte privatizzazioni”, ed ecco che il governo, non sapendo dove sbattere la testa tanto da rimandare ancora una volta la decisione sulla seconda rata dell’Imu, vara un pacchetto di cessioni di quote che dovrebbe far entrare nelle casse dello Stato 10-12 miliardi. Il resto del film è facilmente immaginabile: si leverà alto il beo di chi considererà mezze se non finte le operazioni sulle otto società coinvolte – a cominciare da quella sull’Eni, che per come è congegnata lascia il 30% pubblico inalterato – mentre sull’altro fronte c’è chi, come il solito Ferrero ha già fatto, si straccerà le vesti dicendo che lo sporco profitto privato fotte l’interesse pubblico.
Peccato che, messe così le cose, s’ignorino le vere questioni in gioco. La prima: si decida una volta per tutte ciò che è strategico (per me Eni, Enel, Finmeccanica, ma anche la Sia, che gestisce tutte le transazioni bancarie, lo sono) da ciò che non lo è (per me la quasi totalità delle 8 mila aziende controllate dagli enti locali, ma anche l’Inail, tanto per dire) e ci si comporti di conseguenza. La seconda: se la vera priorità è la tenuta di quel poco di tessuto industriale che ci è rimasto, e possibilmente la sua ricostruzione, la logica con cui privatizzare-mantenere-nazionalizzare deve essere la politica industriale, fin qui del tutto ignorata. La terza: se bisogna risanare la finanza pubblica, e segnatamente ridurre il debito, il patrimonio – formato tanto da partecipazioni societarie quanto da valori immobiliari e terreni – non necessariamente va dismesso, ma si può utilizzare attraverso una o più società veicolo per creare leva finanziaria. Per capirci, non c’è bisogno di vendere Eni, Enel, ecc., per trarne un beneficio finanziario, così come non c’è bisogno di buttare direttamente sul mercato i palazzi, le caserme, ecc., perché si possono piazzare titoli azionari e obbligazionari delle società in cui si collocano, le quali saranno incaricate prima di valorizzare e poi di vendere pezzo a pezzo.
Sia chiaro, il mio non è un intento conservativo fine a se stesso. Quando vedo che un sindaco espressione di Sel come Doria a Genova viene aggredito e una città paralizzata per il solo fatto che si ipotizza che la società comunale dei trasporti, fallita sotto un insopportabile fardello di debiti, venga passata a Busitalia di Ferrovie, capisco che l’impasto tra statalismo, assistenzialismo e corporativismo fornisce una formidabile arma a chi vuole lo “Stato ultra-minimo”. Tuttavia, non si può contrapporre ad un errore ideologico un’altra ideologia, seppure di segno contrario.
E che ci sia bisogno di sano pragmatismo, lo dimostra il fatto che troppa poca attenzione si sta dando, proprio perché fuorviati dal dibattito ideologico, all’atteggiamento ostruzionistico con cui la Ragioneria – sostituendosi arbitrariamente alla politica, pur se con il suo sottomesso consenso – blocca ogni ragionevole operazione virtuosa di “Stato & mercato”. Prima lo ha fatto con i debiti delle pubbliche amministrazioni: si poteva copiare il modello spagnolo e a quest’ora la gran parte dei 100-150 miliardi dovuti alle imprese – a proposito, come mai la Ragioneria non ci dice quanti sono esattamente questi benedetti debiti? – sarebbe già nell’asciutto sistema economico, ma dalle parti di via XX Settembre qualcuno ha detto niet.
Ieri è successa la stessa cosa: nonostante che tutte le associazioni del mondo produttivo e l’Abi lo avessero chiesto a gran voce, che la Cdp fosse pienamente d’accordo e che nel governo ci fossero molte voci consenzienti (una per tutte il ministro Patroni Griffi), c’è stato pollice verso al fatto che lo Stato fornisca alla stessa Cdp garanzie per rendere meno onerosi per le banche i prestiti alle imprese. Cioè quello che fanno la tedesca Kfw e la francese Cdc, con il permesso di quell’Europa che viene evocata per dire niet. Riparliamone.
Il copione è sempre lo stesso: gli economisti liberisti scrivono sui grandi giornali la loro indignazione perché ci sono ancora molte aziende in mano pubblica; i politici deboli non resistono alle critiche – specie se la tirata d’orecchie, ancorché liberista, viene da sinistra (sic) – ma si preoccupano di perdere potere reale. Risultato: si fanno scelte affannose che producono operazioni pasticciate, parziali, che non accontentano né i mercatisti né gli statalisti. Anche questa volta si rischia che vada così. Osservate la sequenza: Giavazzi – sempre lui, dimentico che durante la crisi finanziaria, di fronte alla nazionalizzazione delle banche inglesi e all’interventismo americano, aveva ammainato le bandiere liberiste – scrive sul Corriere una reprimenda sul fatto che lo Stato usa Cdp per fare quelle che lui chiama “finte privatizzazioni”, ed ecco che il governo, non sapendo dove sbattere la testa tanto da rimandare ancora una volta la decisione sulla seconda rata dell’Imu, vara un pacchetto di cessioni di quote che dovrebbe far entrare nelle casse dello Stato 10-12 miliardi. Il resto del film è facilmente immaginabile: si leverà alto il beo di chi considererà mezze se non finte le operazioni sulle otto società coinvolte – a cominciare da quella sull’Eni, che per come è congegnata lascia il 30% pubblico inalterato – mentre sull’altro fronte c’è chi, come il solito Ferrero ha già fatto, si straccerà le vesti dicendo che lo sporco profitto privato fotte l’interesse pubblico.
Peccato che, messe così le cose, s’ignorino le vere questioni in gioco. La prima: si decida una volta per tutte ciò che è strategico (per me Eni, Enel, Finmeccanica, ma anche la Sia, che gestisce tutte le transazioni bancarie, lo sono) da ciò che non lo è (per me la quasi totalità delle 8 mila aziende controllate dagli enti locali, ma anche l’Inail, tanto per dire) e ci si comporti di conseguenza. La seconda: se la vera priorità è la tenuta di quel poco di tessuto industriale che ci è rimasto, e possibilmente la sua ricostruzione, la logica con cui privatizzare-mantenere-nazionalizzare deve essere la politica industriale, fin qui del tutto ignorata. La terza: se bisogna risanare la finanza pubblica, e segnatamente ridurre il debito, il patrimonio – formato tanto da partecipazioni societarie quanto da valori immobiliari e terreni – non necessariamente va dismesso, ma si può utilizzare attraverso una o più società veicolo per creare leva finanziaria. Per capirci, non c’è bisogno di vendere Eni, Enel, ecc., per trarne un beneficio finanziario, così come non c’è bisogno di buttare direttamente sul mercato i palazzi, le caserme, ecc., perché si possono piazzare titoli azionari e obbligazionari delle società in cui si collocano, le quali saranno incaricate prima di valorizzare e poi di vendere pezzo a pezzo.
Sia chiaro, il mio non è un intento conservativo fine a se stesso. Quando vedo che un sindaco espressione di Sel come Doria a Genova viene aggredito e una città paralizzata per il solo fatto che si ipotizza che la società comunale dei trasporti, fallita sotto un insopportabile fardello di debiti, venga passata a Busitalia di Ferrovie, capisco che l’impasto tra statalismo, assistenzialismo e corporativismo fornisce una formidabile arma a chi vuole lo “Stato ultra-minimo”. Tuttavia, non si può contrapporre ad un errore ideologico un’altra ideologia, seppure di segno contrario.
E che ci sia bisogno di sano pragmatismo, lo dimostra il fatto che troppa poca attenzione si sta dando, proprio perché fuorviati dal dibattito ideologico, all’atteggiamento ostruzionistico con cui la Ragioneria – sostituendosi arbitrariamente alla politica, pur se con il suo sottomesso consenso – blocca ogni ragionevole operazione virtuosa di “Stato & mercato”. Prima lo ha fatto con i debiti delle pubbliche amministrazioni: si poteva copiare il modello spagnolo e a quest’ora la gran parte dei 100-150 miliardi dovuti alle imprese – a proposito, come mai la Ragioneria non ci dice quanti sono esattamente questi benedetti debiti? – sarebbe già nell’asciutto sistema economico, ma dalle parti di via XX Settembre qualcuno ha detto niet.
Ieri è successa la stessa cosa: nonostante che tutte le associazioni del mondo produttivo e l’Abi lo avessero chiesto a gran voce, che la Cdp fosse pienamente d’accordo e che nel governo ci fossero molte voci consenzienti (una per tutte il ministro Patroni Griffi), c’è stato pollice verso al fatto che lo Stato fornisca alla stessa Cdp garanzie per rendere meno onerosi per le banche i prestiti alle imprese. Cioè quello che fanno la tedesca Kfw e la francese Cdc, con il permesso di quell’Europa che viene evocata per dire niet. Riparliamone.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.