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Public Policy

Quali le prossime strategie di governance globale?

Toronto: un inutile summit

Nonostante i compromessi, il bandolo della matassa dei disequilibri mondiali non si trova

di Enrico Cisnetto - 28 giugno 2010

Un pareggio, un rinvio e un nulla di fatto. E’ finito così, senza nemmeno i colpi di scena delle partite del Sudafrica, il Mondiale tra i grandi della Terra che si è svolto in Canada. Tra molti compromessi un po’ deprimenti, il G8+G20 di Toronto non ha spostato di un centimetro i pesanti problemi che la crisi finanziaria iniziata nell’estate del 2007 – già, sono passati ormai tre anni – ci ha lasciato in eredità. Il pareggio riguarda il match che si è svolto prima e durante il summit tra chi sostiene – l’Europa, ma in particolare la Germania – che la priorità siano le politiche di contenimento dei deficit e dei debiti pubblici accumulati, e chi – Stati Uniti in testa –pensa al contrario che il vero nodo sia sostenere la ripresa, ancora troppo fragile e sempre più diseguale, e teme che misure di austerity possano comprometterla. Il documento finale recita che entrambi gli obiettivi sono sacrosanti – ed è ero, peraltro – ma non spiega come si possano perseguire contemporaneamente, limitandosi ad auspicarlo.

Il rinvio, invece, riguarda la riforma delle regole che devono sovraintendere al funzionamento del sistema finanziario e bancario mondiale, per le quali l’appuntamento è al prossimo vertice di Seul nientemeno che a metà novembre, quando saranno addirittura 41 i mesi trascorsi senza che i leader dei maggiori paesi abbiano trovato un accordo. Ennesimo rinvio, dunque, nonostante che il Financial Stability Forum guidato da Mario Draghi quella governance l’abbia già definita e messa nero su bianco da tempo. Infine il nulla di fatto riguarda il progetto di tassare le banche e le transazioni finanziarie, idea a cavallo tra la necessità di recupero denaro alle finanze pubbliche e il desiderio di “farla pagare” ai colpevoli, o presunti tali, della crisi. Niente, almeno collettivamente.

Un po’ troppo poco, considerato che a Toronto si è pure definitivamente sancita la morte della versione a otto del summit. Ma a ben vedere era scritto. Ed è stato intuibile l’esito del doppio vertice fin dalla classica photo opportunity del summit di Toronto. Foto che ci ha mostrato un gruppo di ragazzi in “gita di Stato” che sorridono di fronte alle angosce del mondo. Alcuni di loro sono effettivamente giovani e da poco sulla scena internazionale, altri sono più vecchi e soprattutto più stanchi. Alcuni fanno parte di un club esclusivo ma decadente – i ricchi paesi del G8 – altri vengono dalle cosiddette economie emergenti, e ricchi come gli altri vogliono diventare.

Quello che nella foto non si vede, ma c’è, è il diverso fardello che li divide, e si tratta di un peso inversamente proporzionale alla ricchezza dei paesi che guidano. Il debito aggregato dei paesi avanzati del G20 rappresenta infatti il 107,7% del loro prodotto interno lordo, quasi tre volte il debito dei paesi emergenti dello stesso club. Bastano queste due cifre per capire come mai i “ragazzi del G20” – da Obama al cinese Hu Jintao, passando per la Merkel e l’indiano Singh – difficilmente potevano trovare un accordo su come spingere la ripresa dell’economia globale e allo stesso tempo stoppare gli attacchi della speculazione finanziaria. Del resto è proprio grazie a quel debito che i cittadini dei paesi ricchi hanno un tenore di vita che, nella media, è assolutamente più alto e non paragonabile ai soci più deboli del G20, che – giustamente – vogliono mettersi in pari. Ma oggi la coperta si è accorciata a causa dei grossi squilibri che quella crescita e quella ricchezza hanno provocato. Tanto che in questi ultimi anni si era salutata con entusiasmo – frettoloso – la nascita del G20 come la soluzione all’incapacità di prendere decisioni del G8, non rappresentativo dei nuovi equilibri mondiali.

Torna così il dubbio sugli strumenti con cui affrontare il difficile governo globale. Dubbio più che legittimo visto che alla fine, in mancanza di idee e di concerto, i grandi della Terra accanto alla proposta di dimezzare i deficit entro il 2013 e portare i debiti sotto controllo entro il 2016 – peraltro senza dire come – non sono nemmeno stati capaci di varare la tassa sulle banche come grande lavacro per mettere in pace le coscienze di tutti.

Un po’ perché la lobby dei banchieri è molto potente, ma soprattutto perché chi è in corsa per raggiungere gli opulenti paesi occidentali (India e Cina in primis) non ne vogliono sapere di andare a colpire i loro sistemi bancari che finora si sono rivelati solidi, e per di più non sono certo stati i protagonisti della bolla che ha sconvolto la geografia delle istituzioni finanziarie globali.

Inoltre questi paesi non hanno nessuna voglia di rallentare la loro corsa verso il benessere e quindi farsi carico di quella “crescita sostenibile” che oggi, dopo anni d’irrazionale frenesia per bonus, stock options e quant’altro, sembra diventata un concetto buono solo per convegni di neo-pauperisti. Persino i tedeschi, per bocca del ministro delle finanze Schäuble, hanno definito l’1,5% come un tasso di crescita “sostenibile”, nel senso di ragionevole.

E allora se la coperta corta viene tirata da più parti sia nel vecchio G8 – tra Obama che ha chiesto al Congresso Usa altri 200 miliardi per sollevare il mercato interno e la Merkel che forte del suo surplus commerciale vuole imporre nel Vecchio Continente manovre di bilancio capaci di fronteggiare la pressione speculativa contro l’euro, ma potenzialmente recessive – sia nel nuovo G20 perché le economie emergenti non possono rallentare i loro tassi di crescita che oscillano tra il 7% e il 10%, allora non ci sono super-economisti al seguito che tengano – da Roubini a Krugman, da Sachs a Stiglitz – il bandolo della matassa dei disequilibri mondiali non si trova.

Anche perché nessuno, a torto o a ragione, vuole fare mezzo passo indietro. Non gli Stati Uniti, che pure hanno vissuto e tuttora vivono al disopra dei loro mezzi. Non la Germania, che pure dovrebbe e potrebbe spendere e importare un po’ di più se solo non avesse la “sindrome del marco”. E neppure la Cina, che pur essendo l’unico paese ad aver preso un impegno serio – rivalutare la sua moneta, che finora ha finanziato in modo scorretto l’export – deve ancora imparare ad essere leader mondiale. Insomma, l’exit strategy dagli eccessi di deficit e debito e il sostegno alla crescita sono un puzzle difficilmente componibile in uno solo degli angoli del mondo, e la ripresa globale non verrà certo aiutata se tutti tenteranno di aumentare il loro attivo commerciale grazie ai consumi altrui. La svolta a Toronto non c’è stata, ma – temo – andando avanti così non ci sarà neppure in novembre in Corea.

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