Le trame dei poteri forti. Vere o presunte?
Torna il clima del 1994
Allora, come oggi, trapela il celato punctum dolens: le incapacità nel governo della cosa pubblicadi Angelo De Mattia - 14 ottobre 2009
Hannibal ante portas, così appare ormai il ripetuto allarme che quotidianamente lanciano molti esponenti del Governo contro le presunte trame dei presunti poteri forti. Per la verità, questa formula, in un tempo assai lontano, è stata propria della sinistra, quando il tema della legittimazione democratica si poteva porre fondatamente perché forze economiche e finanziarie cooperavano, nella sostanza, nella conventio ad excludendum politica del Partito comunista. E si nutriva anche di studi teorici, come quelli sugli apparati di mediazione ( Althusser ).
Ma oggi siamo in una situazione enormemente diversa. L’assalto dei poteri forti viene evocato da un Governo che ha una maggioranza parlamentare mai prima d’ora conseguita nel dopoguerra. E ciò accade in un periodo di crisi economica e finanziaria globale di carattere epocale, che si riflette anche in Italia e fa sì che le forze economiche si attendano dallo Stato interventi protettivi, il che contrasta apertamente con un loro eventuale disegno destabilizzante.
L’allarme funziona, però, da chiamata a raccolta e giustifica ritardi e inerzie su vari fronti, a cominciare dalla politica economica, oppure alimenta approcci negoziali ( del tipo “do ut des” ) nei confronti delle imprese o dei gruppi che, a seconda degli esponenti governativi o di maggioranza, vengono inseriti nell’”elenco” delle èlite o dei poteri forti, con o senza l’accompagnamento di espressioni diciannoviste, fino all’appello, in alcuni casi, a forme di boicottaggio.
Lo spauracchio-alibi così agitato ricorda un comportamento pressoché identico tenuto nel 1994, subito dopo la costituzione del primo Governo Berlusconi, quando, senza alcun valido motivo, fu mosso un attacco al “potere forte” Banca d’Italia, perché allora ( ma, purtroppo, anche oggi ) tale la si riteneva. E allora, come oggi, questa linea di condotta celava a fatica il punctum dolens: le incertezze , le indecisioni e le incapacità nel governo della cosa pubblica. Ed era anche indizio di una perenne interpretazione della vita politica come schimittiano confronto amico-nemico.
Ma, poi, quali sarebbero questi poteri esorbitanti? Poste le condizioni non brillanti in cui si trova quel che resta della grande impresa – che non appare certo aver voglia di tramare contro il quadro politico attuale - e dovendosi escludere quei soggetti economici partecipati dal Tesoro per ovvie ragioni, non rimarrebbero che le banche o, addirittura, solo alcune di esse. Gli istituti di credito hanno affrontato la crisi in condizioni nettamente migliori di quelle nelle quali si sono trovati molti sistemi bancari esteri. Devono, molte di essi, fare ancora progressi sul piano della valutazione del merito di credito e della tutela del risparmio. Prima compiono un salto di qualità al quale li spinge spesso il Governatore Mario Draghi , meglio è per la loro immagine e per la loro reputazione.
Ma oggi sono quotidianamente sotto l’attacco o, in condizioni più tranquille, sotto la critica del Ministro dell’economia. E’ nell’ordine delle cose che essi replichino oppure se ne lamentino o, addirittura, come è stato loro consigliato qualche tempo fa da un incisivo articolo di Dario Di Vico sul Corriere della Sera, si conquistino direttamente una legittimazione nell’opinione pubblica? O è un atteggiamento sovversivo? Quello che un tempo si chiamava il sovversivismo dei gruppi dirigenti? Vogliamo far ridere? Può far parte di questo generico atto di accusa il fatto che le due maggiori banche – i cui rispettivi processi di aggregazione vengono oggi criticati dopo che per decenni si è strologato contro il nanismo bancario - non abbiano voluto fare ricorso all’emissione dei Tremonti bond, che dava al Governo la possibilità di ingerirsi nella gestione aziendale , ed hanno individuato più convenienti opzioni? O, piuttosto, si vorrebbe agire sulle fondazioni per condizionare gli assetti delle banche partecipate, cosicché chi dovesse resistere sarebbe un eversore?E’l’accusa di cattiveria mossa da chi vorrebbe infilzare un altro con la spada, ma questi si muove?
Per carità di patria, lasciamo da parte la Banca d’Italia, spesso inserita nella rosa dei suddetti poteri, che rappresenta, invece, una istituzione di cui il Paese dovrebbe essere fiero per il prestigio internazionale, per l’opera che svolge, per la rigorosa lealtà istituzionale, per essere un fondamento della democrazia economica. Ma escludiamo anche gli organi e i poteri costituzionali. Non ci sono, qui, poteri forti, ma poteri disciplinati dalla Carta costituzionale, che possono esigere o no misure riformatrici, ma sarebbe assurdo condannarne l’operatività perché si assume infondatamente che sia antigoverno.
Chi resta? Il solito gruppo editoriale di cui si straparla? Eppure, questa storia dei poteri forti è stata fatta discendere così rapidamente per i rami che, addirittura, vede movimenti di imprese minori schierarsi contro imprese più grandi. Un fatto mai accaduto. Tale da lacerare un tessuto di necessarie collaborazioni economiche e sociali. Non è vero che se si vuole far politica, bisogna, come condizione preliminare, formare un partito e partecipare alle elezioni.
Quel che occorre, invece, è che qualsiasi posizione politica sia trasparente, visibile in tutte le sue motivazioni. Che l’agorà sia veramente tale. E che il Governo o comunque le forze di maggioranza, con la stessa trasparenza, chiariscano definitivamente quali sarebbero i poteri forti e perché condizionerebbero l’azione dell’Esecutivo. Che, invece, farebbe bene ad agire con una vera politica economica; così i vaniloqui passerebbero in secondo piano.
L’allarme funziona, però, da chiamata a raccolta e giustifica ritardi e inerzie su vari fronti, a cominciare dalla politica economica, oppure alimenta approcci negoziali ( del tipo “do ut des” ) nei confronti delle imprese o dei gruppi che, a seconda degli esponenti governativi o di maggioranza, vengono inseriti nell’”elenco” delle èlite o dei poteri forti, con o senza l’accompagnamento di espressioni diciannoviste, fino all’appello, in alcuni casi, a forme di boicottaggio.
Lo spauracchio-alibi così agitato ricorda un comportamento pressoché identico tenuto nel 1994, subito dopo la costituzione del primo Governo Berlusconi, quando, senza alcun valido motivo, fu mosso un attacco al “potere forte” Banca d’Italia, perché allora ( ma, purtroppo, anche oggi ) tale la si riteneva. E allora, come oggi, questa linea di condotta celava a fatica il punctum dolens: le incertezze , le indecisioni e le incapacità nel governo della cosa pubblica. Ed era anche indizio di una perenne interpretazione della vita politica come schimittiano confronto amico-nemico.
Ma, poi, quali sarebbero questi poteri esorbitanti? Poste le condizioni non brillanti in cui si trova quel che resta della grande impresa – che non appare certo aver voglia di tramare contro il quadro politico attuale - e dovendosi escludere quei soggetti economici partecipati dal Tesoro per ovvie ragioni, non rimarrebbero che le banche o, addirittura, solo alcune di esse. Gli istituti di credito hanno affrontato la crisi in condizioni nettamente migliori di quelle nelle quali si sono trovati molti sistemi bancari esteri. Devono, molte di essi, fare ancora progressi sul piano della valutazione del merito di credito e della tutela del risparmio. Prima compiono un salto di qualità al quale li spinge spesso il Governatore Mario Draghi , meglio è per la loro immagine e per la loro reputazione.
Ma oggi sono quotidianamente sotto l’attacco o, in condizioni più tranquille, sotto la critica del Ministro dell’economia. E’ nell’ordine delle cose che essi replichino oppure se ne lamentino o, addirittura, come è stato loro consigliato qualche tempo fa da un incisivo articolo di Dario Di Vico sul Corriere della Sera, si conquistino direttamente una legittimazione nell’opinione pubblica? O è un atteggiamento sovversivo? Quello che un tempo si chiamava il sovversivismo dei gruppi dirigenti? Vogliamo far ridere? Può far parte di questo generico atto di accusa il fatto che le due maggiori banche – i cui rispettivi processi di aggregazione vengono oggi criticati dopo che per decenni si è strologato contro il nanismo bancario - non abbiano voluto fare ricorso all’emissione dei Tremonti bond, che dava al Governo la possibilità di ingerirsi nella gestione aziendale , ed hanno individuato più convenienti opzioni? O, piuttosto, si vorrebbe agire sulle fondazioni per condizionare gli assetti delle banche partecipate, cosicché chi dovesse resistere sarebbe un eversore?E’l’accusa di cattiveria mossa da chi vorrebbe infilzare un altro con la spada, ma questi si muove?
Per carità di patria, lasciamo da parte la Banca d’Italia, spesso inserita nella rosa dei suddetti poteri, che rappresenta, invece, una istituzione di cui il Paese dovrebbe essere fiero per il prestigio internazionale, per l’opera che svolge, per la rigorosa lealtà istituzionale, per essere un fondamento della democrazia economica. Ma escludiamo anche gli organi e i poteri costituzionali. Non ci sono, qui, poteri forti, ma poteri disciplinati dalla Carta costituzionale, che possono esigere o no misure riformatrici, ma sarebbe assurdo condannarne l’operatività perché si assume infondatamente che sia antigoverno.
Chi resta? Il solito gruppo editoriale di cui si straparla? Eppure, questa storia dei poteri forti è stata fatta discendere così rapidamente per i rami che, addirittura, vede movimenti di imprese minori schierarsi contro imprese più grandi. Un fatto mai accaduto. Tale da lacerare un tessuto di necessarie collaborazioni economiche e sociali. Non è vero che se si vuole far politica, bisogna, come condizione preliminare, formare un partito e partecipare alle elezioni.
Quel che occorre, invece, è che qualsiasi posizione politica sia trasparente, visibile in tutte le sue motivazioni. Che l’agorà sia veramente tale. E che il Governo o comunque le forze di maggioranza, con la stessa trasparenza, chiariscano definitivamente quali sarebbero i poteri forti e perché condizionerebbero l’azione dell’Esecutivo. Che, invece, farebbe bene ad agire con una vera politica economica; così i vaniloqui passerebbero in secondo piano.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.