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Servono risorse per evitare danni alle imprese

Tfr, dalla “liquidazione” ai “fondi”

Un’analisi di ciò che cambia per dipendenti e datori di lavoro. Con qualche perplessità

di Alessandro Rapisarda - 26 ottobre 2005

Salvo deroghe o diverse previsioni, tra poco più di due mesi, cioè da gennaio 2006 e fino a giugno, i lavoratori delle aziende private saranno chiamati a decidere se mantenere l'attuale sistema della liquidazione del trattamento di fine rapporto o se passare ai fondi pensione. Una scelta che non solo riformerebbe uno strumento ormai più che collaudato e rassicurante, ma che potenzialmente potrebbe creare lo spostamento anche di parecchi miliardi di euro. Quando si smuovono miliardi, è facile cadere nei soliti alchemici dilemmi: in tutto questo chi ci perde? Chi ci guadagna? Ma l’alchimia non fa politica, non aiuta le riforme e rischia di creare inutili attriti sociali.

Credo invece che sia necessario comprendere chi sono gli attori di questa riforma e i motivi che hanno indotto certe scelte. I primi attori ad entrare in scena sono i tredici milioni di lavoratori dipendenti coinvolti, che muoveranno un flusso finanziario annuo di tredici miliardi di euro, sarebbe pari al 13 per cento la percentuale di italiani pronti ad aderire al nuovo sistema, secondo un'indagine condotta dal centro di ricerca Isae.

Il trattamento di fine rapporto “Tfr” è uno strumento tutto italiano, solo in Germania esiste una forma simile di accantonamento a cura delle aziende e questo sistema, fino ad oggi, è stato oggettivamente una forma di finanziamento a buon mercato e che gli altri attori di questa storia, le aziende, rischiano di perdere. Basti pensare che la rivalutazione che le aziende riconoscono ai lavoratori dipendenti è pari al 75% dell’inflazione annua più 1,5%, dove mediamente il tasso di interesse di un istituto di credito e pari al 5 - 6%. Proprio questo smobilizzo di denaro ha da sempre preoccupato le associazioni dei datori di lavoro.

Per maggiore chiarezza e per comprendere che cosa si delinea per il futuro facciamo un passo indietro. I lavoratori privati dovranno scegliere se continuare a farsi accantonare dalle aziende il 13,5 per cento della retribuzione lorda per costruirsi la cara, vecchia liquidazione; oppure se trasferire questi soldi ai fondi pensione, facendo decollare la cosiddetta previdenza complementare che affianca il sistema ordinario gestito dall'Inps, il quale è messo in forte crisi dall'invecchiamento della popolazione.

Se il lavoratore dicesse di no, non cambierebbe nulla. Se dicesse di sì, dovrebbe anche indicare a chi far versare questi soldi: al fondo pensione di categoria o aziendale, o a un fondo aperto, collocato da banche, società di assicurazioni, società di gestione, o a un piano assicurativo offerto dalle compagnie d'assicurazione. Se infine il dipendente non esprime alcuna preferenza, il suo silenzio sarà interpretato come un assenso e i suoi futuri versamenti saranno dirottati sul fondo di categoria o se questo non c'è, in uno speciale fondo predisposto dall'Inps.

Una volta che il dipendente sceglie la strada del fondo non potrà più accedere al vecchio sistema della liquidazione. Invece chi avrà scelto di non aderire ad alcun fondo, successivamente avrà la possibilità di ripensarci e quindi trasferire in qualsiasi momento i versamenti nei fondi preposti.

Negli alchemici dilemmi summenzionati rientra la classica domanda “questi soldi finiscono bene? Dove vanno a finire?”. Il rischio che qualcuno scappi con il malloppo è veramente remoto. Con i fondi di investimento non è mai successo. Semmai il gestore può fare peggio dei mercati, comunque sui fondi vigila la Covip, Commissione di vigilanza sui fondi pensione.

Sul Tfr si pagano imposte superiori al 20 per cento, se mi danno 10 mila euro di liquidazione dopo 5 anni di lavoro, ne pago oltre 2 mila in tasse, inoltre sulla rivalutazione si paga un’imposta sostitutiva pari al 11 per cento.

Il fondo invece potrebbe essere assoggettato ad alcune agevolazioni fiscali, bisognerà però aspettare fino alla pensione. A differenza della pensione ordinaria quando si va in pensione, si potrà chiedere di avere subito il 50 per cento del capitale maturato. Su questi soldi le tasse saranno al massimo del 15 per cento, e potranno scendere fino al 9 per cento in base agli anni di versamenti nel fondo. Quindi: meno tasse rispetto al Tfr.

Inoltre, come con la liquidazione, il lavoratore può chiedere un anticipo prima di andare in pensione: fino al 75 per cento per spese sanitarie, fino al 50 per cento per la casa e fino al 30 per cento per altre esigenze personali.

L’articolato della riforma proietterà nelle casse dei fondi pensione, sono circa 600 di cui una parte, 134, di nuova generazione, mentre gli altri si stanno adeguando alle nuove regole. In tutto contano circa 2,8 milioni di iscritti. I fondi «chiusi» o «negoziali», come quello dei metalmeccanici, il più grande, sono in genere frutto di un accordo tra i sindacati di una categoria e i datori di lavoro. Non gestiscono direttamente i soldi ma lo fanno attraverso grandi società di gestione, banche, assicurazioni. I fondi aperti, disponibili per chiunque, sono invece gestiti direttamente da società finanziarie, banche, compagnie assicuratici. Spesso offrono più linee di investimento: obbligazionaria, mista, azionaria. Se si cambia lavoro, si potrà passare a un altro fondo di categoria senza oneri.

E’ chiaro come la riforma influenzerà i lavoratori dipendenti e i fondi pensione, ma a questo punto c’è da chiedersi come faranno i datori di lavoro a supplire alla mancanza di una quota finanziaria così consistente.

Qui si apre il sipario sul sistema chiamato di compensazione che dovrebbe creare un cuscinetto per i datori di lavoro che dovrebbe attenuare se non eliminare, l’affaticamento finanziario causato dalla diversa gestione del Tfr, che consiste in una serie di agevolazioni nell’erogazione di finanziamenti da parte degli istituti di credito privati.

In tema di “compensazioni”, nascono i primi problemi, infatti il ministro dell'Economia avrebbe dato il suo assenso a puntare ancora sul Fondo di garanzia (con i correttivi proposti da Maroni). E soprattutto a farsi carico di verificare la possibilità di individuare con la Finanziaria le necessarie risorse per colmare il "vuoto" tra il momento in cui l'azienda perde il Tfr e quello in cui scatta l'accesso al credito concesso dalle banche.

A tutto questo si aggiunge il fatto che il pacchetto di modifiche presentato lo scorso settembre al decreto attuativo sul Tfr per recepire, ma solo in parte, i correttivi proposti dalle parti sociali si è trasformato in un irrobustimento di 200-300 milioni della "dote" a disposizione della riforma della previdenza integrativa, da trovare scavando nella Finanziaria, per alimentare il Fondo di garanzia destinato a fungere da "anello di congiunzione" nel meccanismo delle compensazioni alle imprese. Una procedura più rapida (ma non un automatismo vero e proprio) per la concessione del credito agevolato alle aziende da parte delle banche.

Il ministro del Welfare ha sottolineato che le compensazioni per le imprese «non possono essere un onere per la finanza pubblica», anche perché se fosse lo Stato a farsene carico, «nel giro di 10 anni» si arriverebbe a un costo «di 5-6 miliardi». Per questo motivo nei mesi scorsi lo stesso Baldassarri aveva proposto un'alternativa: la cessione del credito, ovvero una forma di cartolarizzazione del Tfr che sarebbe a costo zero per le casse pubbliche. Ma Maroni resta convinto che la soluzione migliore sia quella del Fondo di garanzia e della collaborazione con le banche.

Da questa breve analisi della nuova gestione del Tfr, rimangono però alcune perplessità, come: quali saranno in dettaglio le agevolazioni fiscali per i dipendenti che destinano la propria liquidazioni ai fondi? Quali procedure e in che tempistiche le aziende potranno fruire della compensazione? Avrà la stessa immediatezza della trasposizione del Tfr ai fondi? Come sarà strutturato il fondo di garanzia? Quali saranno le regolamentazioni di diritto transitorio?

Personalmente mi auspico una grande presa di coscienza da parte di tutte le parti sociali e del governo, nella gestione di un problema che ormai non ha più tempo di essere risolto e che di soluzioni in materia sono state scritte fiumi e fiumi di pagine. E’ l’ora del buon senso è ora di pensare all’interesse dei cittadini che lavorano, dipendenti, autonomi e aziende, facciamo sistema.

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