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L’Aquila: simbolo di una tragedia

Terremoto istituzionale

L’Italia inciampa regolarmente nelle regole "folli" che si dà

di Davide Giacalone - 09 luglio 2010

L’Aquila resterà il simbolo di una tragedia. Prima il terremoto, poi il resto. Tragico anche il copione che prevede il disprezzo per le molte cose ottime che si sono fatte, fino a far tornare i terremotati sulle prime pagine dei giornali, ma in quanto manganellati dalla polizia. L’Aquila sarà il nome di un’Italia che ha perso il rispetto per sé stessa, al punto da preferire l’alimentazione degli scontri alla soluzione dei problemi.

L’emergenza, nelle ore e nei giorni in cui la popolazione vedeva le case e il mondo crollare, è stata gestita in modo eccellente. Nulla di simile si era neanche lontanamente visto nel Belice o in Irpinia, e neanche in Friuli. Nulla di simile si era visto nella Luisiana alluvionata, o in tanti altri casi di disgrazie che hanno colpito Paesi ricchi e ben organizzati. Il merito va alla Protezione Civile, ai pompieri, all’esercito e alle altre strutture mobilitate. Il merito, però, va anche al fatto che durante l’emergenza si sospendono le regole. L’Italia inciampa regolarmente nelle regole che si dà, non perché indisciplinata (anche) o furfantesca, ma perché sono regole folli. Con quelle deve fare i conti la ricostruzione.

Partita bene ha poi rallentato la sua corsa. Pur sempre meglio di altre esperienze passate, ma non del Friuli, ad esempio, dove la popolazione provvide molto per i fatti propri. Le inadempienze e i ritardi sono diversi, con responsabilità che ricadono su molti, compresi quelli che protestano. E qui si cela un disgustoso paradosso italiano: chi chiede che si faccia in fretta chiede anche, implicitamente, che si saltino e trascurino le regole dell’edificazione e dell’appalto; ma una volta violate le regole chi lo ha fatto non passa per benemerito, bensì per delinquente. La soluzione burocratica più semplice è: non fare. I ritardi creano disagi e proteste. Se le forze politiche avessero senno e senso di responsabilità metterebbero mano alla riscrittura delle regole, in modo che si possa sia fare che rispettarle. Invece preferiscono la propaganda: gli uni per attribuirsi tutto il merito del bene, gli altri per scaricare tutta la colpa del male. Se la faziosità fosse abitabile e commestibile gli aquilani sarebbero tutti lussuosamente alloggiati e satolli.

La protesta arriva a Roma. Alcuni manifestanti, però, voglio altro, vogliono lo scontro, quindi tentando di cambiare strada e recarsi dove non è consentito (con il rischio di scaricare una manifestazione sull’altra, perché davanti alla Camera si trovavano già i disabili). La polizia si oppone, perché questo è il suo dovere, quelli provano a sfondare e ottengono quel che desiderano: qualche manganellata. A ruota, però, una delegazione di aquilani viene ricevuta da varie istituzioni e si promette l’inserimento nel decreto della rateizzazione decennale delle tasse. Il che fa pensare al combinarsi d’irresponsabilità e incapacità, quella dei sobillatori e quella di chi poteva anche pensarci prima.

A ruota arrivano gli arruffapopoli di vario conio e natura. Avvoltoi pronti a considerare carogna un corpo ancora vivo. Immagino lo stato d’animo degli aquilani per nascita e residenza, non per professione piazzaiola. Credo che essi non considerino regge le case messe a loro disposizione, ma conoscono l’odissea di popolazioni a lungo vissute in tende e containers.

Credo che vogliano tornare a camminare nella loro città distrutta, ma nessuno ha mai pensato fosse possibile in un anno. Immagino che, osservando la scena, si domandino: noi, che c’entriamo? Vorremmo dirlo noi tutti. Quest’Italia autolesionista e rabbiosa, inerte e agitata, non vorremmo fosse la nostra.

Pubblicato da Il Tempo

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