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I vantaggi di uno scorporo “soft” della rete

Telecom: una folle case history

Tra far-west e fast-web meglio una sana via di mezzo

di Enrico Cisnetto - 23 febbraio 2009

Sono passati esattamente 10 anni da quando un’opa sulla Telecom, accolta dai più come il segno della modernizzazione (sic) del capitalismo e del mercato finanziario italiani, trasformò una sciagurata privatizzazione in una tragedia. Da allora si sono bruciate enormi risorse – qualcuno le calcola in 150 miliardi di euro – si è trasformato un player mondiale in una tlc nazionale (misurabile con il fatto che Telefonica capitalizzava un terzo di Telecom e oggi ne è tre volte e mezzo) e l’infrastruttura di rete, decisiva per lo sviluppo di un paese avanzato, è rimasta al palo.

Con l’aggravante che tre diverse proprietà ci riconsegnano una Telecom che essendo carica di 40 miliardi di debito (tutto extra-gestionale) non è in grado di fare né acquisizioni (anzi) né significativi investimenti, pur avendo ancora un’ottima capacità di generare valore aggiunto. Per di più essa è oggetto di continue pressioni riguardanti la sua rete tlc (che poi l’unica del Paese), che vanno dalle richieste di nazionalizzarla – di chiaro stampo stalinista – alle sollecitazioni per realizzare un fantasioso progetto di un’Italia a 100 Mega al secondo per tutti.

Cose, entrambe, che finirebbero per tagliare le gambe alla società guidata da Bernabè, scrivendo così l’ultimo atto di questa folle case history. Ora, è vero che un ulteriore ammodernamento della rete veloce è necessario: l’Adsl di seconda generazione copre solo il 56% della popolazione e la fibra ottica è da tempo ferma al 10% (anche se il vero digital divide italiano è la diffusione inferiore al 50% dei computer nelle famiglie).

Ed è indubbio che le due questioni, proprietà e investimenti, s’incrociano, e dunque sbagliano coloro che vogliono lasciare tutto così com’è. Ma da qui a mettere a repentaglio una delle poche grandi società che ci sono rimaste, e per di più in una fase di grave recessione come questa, è a dir poco delinquenziale. E tale sarebbe la nazionalizzazione forzata di cui – complice la rapida conversione dei nostri liberisti d’antan al pregiudizio ideologico opposto e la pressione lobbystica dei concorrenti (si noti: tutti a proprietà straniera) – si sente parlare con insistenza. Così come non avrebbe senso, anche perché costerebbe uno sproposito (non meno di 50 miliardi), un’Italia totalmente cablata a banda ultralarga: i clienti business ce l’hanno già, o la possono avere, con linee e servizi dedicati, mentre ai normali cittadini basterebbe (e avanzerebbe) poter contare su una velocità garantita stabilmente di 2 Mega (ora l’Adsl2+ ha addirittura 20 mbit/s ma spesso si viaggia a meno di uno), più che sufficiente per telefonare, scaricare musica e video, e utilizzare servizi avanzati (telesanità, telesorveglianza, rapporto con la pubblica amministrazione, ecc.).

Allora è il caso di pensare, sul fronte proprietario, ad uno scorporo “soft” della rete, simile a quella Enel-Rete Gas, con uno spin-off che crei una nuova entità di cui potrebbero essere soci, oltre alla stessa Telecom (per esempio al 30-40%), investitori istituzionali e mercato.

Questo consentirebbe a Telecom di valorizzare l’asset (contrariamente all’esproprio) e ridurre il debito, e alla nuova società (Rete Tlc?) di spendere quei 10-15 miliardi necessari per un buon ammodernamento. Forse non sarà l’Italia delle autostrade digitali che qualcuno sogna, ma tra far-west e fast-web meglio una sana via di mezzo.

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