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Gli scandali noti e le scoperte sospette

Telecom: i conti non sono mai tornati

L'assenza di anticorpi civili e politici. Ecco cosa manca all'Italia degli oscuri misfatti

di Davide Giacalone - 08 giugno 2007

Quando, anni fa, cominciammo a raccontare che i conti di Telecom Italia, in Brasile, non tornavano affatto, nessuno ci diede ascolto. Un paio d’isolati parlamentari presentarono interrogazioni cui nessuno rispose mai. Il che dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che nel mondo politico ed istituzionale si è fatto di tutto per non vedere, non sapere e non intervenire. Questo è il nostro problema nazionale: l’assenza di anticorpi civili e politici, l’idea che tutto sia sempre guerra per bande, il falso realismo cinico di chi ti guarda con sussiego se solo ti provi ad indicare l’evidenza dei fatti. Il derivato di questa malattia è che le stesse identiche cose ricompaiono sulla scena sotto forma d’atti giudiziari, come al solito sfilati alle inchieste, presi in modo parziale, raccolti in maniera non meno opinabile ed infine gettati nel frullatore dello scandalismo, talora più alleato che nemico degli scandali. Noi abbiamo raccontato sia il ruolo di Romano Prodi nella peggiore vendita immaginabile di una grande multinazionale italiana, Telecom Italia, nata e cresciuta con i soldi degli italiani e dello Stato italiano, quindi patrimonio pubblico. Abbiamo raccontato il ruolo di Massimo D’Alema nell’incredibile ed invereconda scalata del 1998, quando la società fu consegnata, complice il governo che lui presiedeva, nelle mani di una cordata lussemburghese, a sua volta radicata nei paradisi fiscali e nei regni dell’opacità. Abbiamo raccontato la guerra apertasi in Brasile per il controllo di Brasil Telecom, dove gli italiani giocavano lo strano ruolo di chi cercava di spendere più soldi possibile per le acquisizioni (Crt), o comperavano improbabilissimi portali internet (Globo.com) per cifre del tutto fuori dalla realtà. Raccontammo, insomma, prima il trasferimento in tasche private della ricchezza pubblica, poi il successivo trasloco in tasche anonime, infine il depauperamento della società, con deflusso imponente di soldi verso lidi tuttora sconosciuti. Quel che abbiamo già raccontato e documentato, insomma, è assai più grave dell’ipotesi, non dimostrata (e forse nemmeno dimostrabile) che il Tizio od il Caio abbia un conto segreto dove sono affluiti od affluiscono soldi di dubbia provenienza.

In quanto all’idea che D’Alema possa avere un conto corrente intestato Oak, cioè Quercia, fa ridere i polli, e l’interessato ha gioco facile a smentire una non notizia all’apparenza incredibile. Ma dimentica, lui e tutti quelli che si scandalizzano a scoppio ritardato, che noi abbiamo già scritto che un Oak Found, un Fondo Quercia, non solo esiste, ma era tra gli scalatori che accompagnavano i suoi beneamati “capitani coraggiosi”. Naturalmente quel fondo non è suo, o, almeno, nessuno è in grado di dirlo, dato che dalle parti di Cayman Island non si mette la foto dei proprietari nell’intestazione delle società, ma esisteva, e sarebbe stato bello, come noi chiedevamo, che qualche autorità ne chiedesse conto, di quello come degli altri soci, a chi con quelli controllava Telecom Italia. Poi, ne converrà D’Alema, che è uomo intelligente, che non aiuta a star sereni il fatto che proprio approfittando della totale mancanza di trasparenza, al momento della vendita, da quella cordata siano defluiti soldi verso mete insospettabili, ivi compresi i conti segreti, ed all’estero, dei dirigenti Unipol. Persone a lui non sconosciute e che per difendersi da altre accuse dissero: ce li hanno dati quelli di Telecom.

Bella roba. Al contrario di D’Alema, però, noi, che pure non siamo del tutto scemi, abbiamo un’idea univoca e garantista del diritto, e ci faremmo schifo se usassimo una carta giudiziaria (che non sia una condanna definitiva) per farla valere nel dibattito politico. Quindi, per noi, egli rimane persona dabbene di cui non oseremmo mettere in dubbio l’assoluta estraneità a vicende criminali. Ma in quelle politiche è immerso fino al collo, e lo sapeva talmente bene da avere anticipato l’arrivo dell’ondata puteolente con un’apposita intervista al Corriere della Sera. D’Alema, quindi, si mostra oggi più intelligente e più potente dei politici che furono travolti, inermi e silenti, dalle inchieste giudiziarie di un tempo. Visto, però, che qui non siamo in un’accademia ove s’ammiri il gesto ginnico o l’abilità giocoliera, rimangono fermissime le cose che raccontammo e documentammo, rimangono oscuri gli intrallazzi brasiliani, resta da intercettare il fiume di soldi che colà si smarrì (assieme a quello di Parmalat e di Cirio, talora grazie alle medesime persone). Può darsi, anzi, sicuramente quel fiume non ha sporcato le scarpe, del resto preziose, del nostro ministro degli Esteri, ma sua rimane la responsabilità di avere messo in quelle mani un grande, e purtroppo distrutto, patrimonio italiano. Noi ci occupiamo di politica, non di liquami giudiziari, e quel che scrivemmo allora rimane fermo, intatto nella perdurante mancanza di risposte. Ci sarebbe piaciuto affrontare la discussione, e semmai anche lo scontro, in assenza d’inquinamenti spionistici e fughe pilotate, ma non è certo colpa nostra se qualcuno si pensò intoccabile, se qualcuno credette che sarebbe bastato ignorare quei quattro disperati, quegli ininfluenti cultori del diritto e dei diritti, per mettere a tacere ogni cosa.

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