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Le telecomunicazioni in un capitalismo maturo

Telecom e l'Italia che vorremmo

Basta con italianità sterili o mercatismi. Serve un progetto. Che in un Paese normale..

di Enrico Cisnetto - 16 marzo 2007

Se questo fosse un paese normale, o almeno avesse intenzione di esserlo, il nuovo azionista di riferimento di Telecom sarebbe Mediaset, con Silvio Berlusconi al comando e dunque fuori dalla politica. Con ciò sciogliendo in un colpo solo due tra i nodi più intricati del sistema Italia: quello del controllo di una delle imprese più strategiche, creando un gruppo multimediale (rete e contenuti) di dimensione continentale, e quello del superamento di un sistema politico che non funziona.

Ma siccome di normale qui non c’è nulla, da un lato, Tronchetti Provera non trova nessuno dei tanto decantati campioni dell’imprenditoria nostrana che gli compri la scatola con cui, detenendo il 18%, finora ha comandato in una società che, si badi bene, avrà pure 37 miliardi di debiti ma vanta un ebitda superiore al 40%. Mentre, dall’altro, il fallimentare bipolarismo all’italiana continua ad essere abbarbicato al meno fragile dei due bastioni che lo sorreggono, trascinandosi in una lenta agonia. Ha ragione Fedele Confalonieri a dire “ci piacerebbe, ma non ce la farebbero comprare”: se la politica ha determinato le condizioni per l’uscita di scena di Pirelli – anche al netto degli errori che può aver commesso Tronchetti – figuriamoci se ora darebbe luce verde al gruppo di proprietà del leader dell’opposizione. Ma non per i motivi di antitrust televisivo che pudicamente evoca il presidente di Mediaset – si fa presto a cedere TI Media – bensì proprio per il permanere nell’agone politico del Cavaliere. Il quale, superati i 70 ed avendo tratto dal suo “scendere in campo” tutte le soddisfazioni materiali e morali che poteva desiderare, e ben sapendo – pensare il contrario farebbe torto alla sua intelligenza – che solo la sua uscita di scena eviterebbe di riconsegnare ancora il Paese in mano alla sinistra massimalista (e alla destra populista), potrebbe serenamente valutare che prendere quei “due piccioni con una fava” sarebbe la migliore assunzione di responsabilità, oserei dire un vero atto d’amore, verso il suo Paese.

Ma dato che così non sarà, almeno evitiamo di trasformare la vicenda Telecom nell’ennesima puntata del dibattito sulla – vera o presunta – italianità. Il ministro Bersani fa bene a ricordare – anche a fronte dell’opa svizzera su Fastweb – che sarebbe opportuno che le tlc rimanessero a controllo nazionale, e sono benemerite le banche (e le fondazioni) se riescono a coniugare le legittime aspettative di Pirelli con quelle della Telecom di avere una governance adeguata. Ma è del tutto evidente che non si possono più affrontare i singoli casi aziendali senza prima aver definito un quadro più generale entro cui gestire il riassetto del capitalismo italiano.

Allora, la prima cosa da decidere è ciò che va considerato strategico o meno ai fini del sistema paese. Io qui, tra gli statalisti (dichiarati e mascherati) che non escludono di dover difendere, magari con la scusa dei posti di lavoro in pericolo, anche l’ultima delle fabbrichette di periferia, e i liberisti che si rifiutano di ragionare in termini sistemici, scelgo la strada del pragmatismo, e copiando i paesi più liberali di noi dico che è strategico il core business del sistema paese – peccato che noi non lo abbiamo più da almeno tre lustri – e le sue fondamentali infrastrutture, da quelle energetiche a quelle, appunto, delle telecomunicazioni. Il secondo passo da fare è il censimento delle forze in campo.

E qui, partendo dal presupposto che il nostro è sempre più un capitalismo senza capitali – cosa paradossale in un paese che, unico in Occidente, ha accumulato un patrimonio privato pari a nove il pil – dobbiamo prendere atto che le grandi banche e gli investitori istituzionali (in primis le fondazioni, visto che i fondi pensione devono ancora decollare) sono gli unici azionisti non speculativi in grado non solo di mantenere italiani gli asset strategici, ma anche di favorire la nascita di solide public company. Da ciò deriva il loro ingresso nel recinto delle “italianità da difendere”, e non a corrente alternata, come pure la constatazione che vanno costruite partnership europee – partendo da credibili relazioni politico-diplomatiche – prendendo (tristemente) atto che in alcuni settori e in talune circostanze o non c’è più niente da difendere (si pensi all’informatica, per esempio) o la difesa a tutti i costi è incompatibile con lo sviluppo delle stesse imprese. Percorso logico ma difficile, lo so. Forse non meno di quello che porterebbe al gruppo Telecom-Mediaset presieduto da Silvio Berlusconi. Ma ogni tanto sognare...

Pubblicato su Il Foglio di venerdi 16 Marzo

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