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La vicenda simbolo del declino italiano

Telecom, Berlusconi e la sinistra

Il dramma di un Paese che non sa liberare risorse protette. E si tiene governanti inetti

di Davide Giacalone - 20 aprile 2007

Un brivido freddo passa per la schiena dei dirigenti della sinistra, oltre tutto riuniti a congresso: a coronamento di una malaprivatizzazione da loro gestita, dopo l’assalto dei capitani coraggiosi, da loro sponsorizzati, nel mentre la vittoriosa Unione tiene il governo, va a finire che Telecom la compra Berlusconi, prendendo anche gli applausi che spettano al salvatore della Patria. Sarebbe da sghignazzare, se non fosse una tragedia. Siamo alla Caporetto del capitalismo nazionale ed erigiamo un monumento alla meschineria politica (compresa quella di chi ha passato una vita a combattere il capitalismo, per poi scoprire che è un male sia così debole).

E’ incredibile che parole e fatti gravissimi siano oramai considerati quasi normali. Ha detto Tronchetti Provera: far scappare i compratori di Olimpia per “giocare al ribasso” non funziona. Ciò significa che, secondo lui, il governo si è prestato ad un gioco che serve (magari ad una banca) per deprimere il prezzo. E questo è un reato, oltre che un fatto politico gravissimo. Le sue parole, non posso essere declassate a sfogo. Contemporaneamente Montezemolo sostiene che non è serio cambiare le regole mentre il gioco è in atto. Ha ragione, ed avrebbe dovuto accorgersene prima, perché sono state violate e cambiate diverse volte per potere portare la Telecom al punto in cui si trova. Lo dice ora, e la scelta dei tempi non è casuale.

Credo che molti, gravi, errori vadano messi sul conto di Tronchetti Provera, ed ho appena indicato quello politico di Montezemolo, ma le loro parole parlano di un governo che bara e commette aggiotaggio. Non è un tema di dibattito, ma d’indagine penale. Quando Tronchetti Provera ha annunciato d’avere accasato la sua sora Camilla (che tutti la vogliono e nessuno se la piglia) con gli americani si è mosso, da una parte, il provincialismo tremulo ed incompetente di chi era pronto a battersi per un’inutilissima italianità della rete, e,dall’altra, un piccolo esercito di Nando Moriconi che “albertosordescamente” facevano gli americani senza capire quel che essi stessi andavano dicendo. “Mercato, mercato”, era il mantra ripetuto, e non s’accorgevano che se il mercato ci fosse, se ne valessero le regole, se ne fosse rispettata l’etica, nessuno comprerebbe una scatola cinese ed indebitata. Quella vendita è essa stessa un pezzo della nostra inadeguatezza istituzionale. E’ vero che i componenti del governo Prodi sono stati presi da incontinenza nazionalista, è vero che hanno detto un mucchio di spropositi, oltre tutto contraddittori e attirandosi le critiche della Commissione europea e del mondo civile, ma il guasto era lì da prima e consiste nell’avere consentito a ben due gestioni di Telecom di amministrare la società in barba alle leggi, e non solo del mercato. Noi abbiamo documentato quelle enormi responsabilità, ed abbiamo descritto il ruolo negativo di Prodi e D’Alema, ma l’odierna opposizione dovrebbe spiegare perché queste cose ce le siamo dette in pochi e non si sono mai tradotte in azione politica.

Il fatto che nulla si spieghi e di nessun errore si renda conto è il segno di un Paese imbarbarito e decaduto, dove qualcuno può anche pensare di far affari, ma solo a patto di trovare pezzi pregiati da portare via. In quel passato si dovrebbe smettere, io stesso dovrei smettere, di rimestare. Lo si dovrebbe giudicare ed archiviare. Ma non si può, torna a galla perché tutto rimane allusivo, oscuro e l’assenza di giustizia genera ricatti. Se il passato fosse passato oggi dovremmo occuparci di portare in ambito europeo la gestione e la remunerazione delle reti, perché è il livello territorialmente ed economicamente paragonabile a quello degli altri competitori.

In casa nostra, invece, dovremmo promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuovi servizi, di nuove idee, di nuovi imprenditori che, grazie all’apertura mondiale delle reti, alla loro diminuita importanza, possano affermarsi. Non solo in Italia, ma nel mondo. Invece si vuol fare la società che detenga la rete italiana, considerandola una ricchezza anziché una miseria, e per reggerla in piedi si chiede un intervento bancario che renderà ancora più arretrato e soffocato il mercato italiano. E se può darsi che qualche ministro e qualche commentatore siano effettivamente incapaci di capire, è sicuro che altri sanno quel che fanno, ma perseverano perché l’unico gioco che conoscono è quello del piccolo potere interno, dell’influenza sulla stampa, del padronaggio politico. Noi sappiamo che il lavoro da farsi non è quello di costruire questa o quella cordata che riprenda Telecom per poi giocare la partita di Mediobanca e Generali, sempre con l’occhio puntato sul Corriere della Sera. Non abbiamo falsi pudori, non la meniamo demagogicamente dicendo che ci fa ribrezzo il potere, ma, al contrario, vediamo che questa è una lotta per la spartizione delle spoglie, che nulla ha a che vedere con la speranza di rimettere l’Italia in una posizione protagonista. Si devono invece spezzare le catene del controllo senza investimento, si devono far funzionare le autorità di controllo, si devono imporre gli obblighi di coinvolgimento dei piccoli azionisti ogni volta che una società quotata passa da una mano all’altra, anche se la percentuale scambiata è inferiore al trenta per cento.

Si deve rendere accessibile il mercato italiano a capitali stranieri che puntino non sulle famiglie che portano in dote qualche monopolio ex statale, ma su iniziative e persone nuove, giovani. Se non ci sbrighiamo a penalizzare le rendite di posizione ed alleggerire l’Italia che lavora e che inventa passeremo ancora un paio di generazioni a venderci il patrimonio, e poi andremo a far le pulizie in casa dei cinesi. La nostra maledizione è che non c’è governo che si ponga un obiettivo ed un orizzonte così alto. Tutti calcolano la propria vita sulla prossima scadenza elettorale, e questo governo vive della lotta di potere fra i gruppi che fanno capo a Prodi e quelli che fanno capo a D’Alema. Dopo Caporetto venne Vittorio Veneto, ma ce lo scordiamo se continueremo ad essere governati da chi si vende i fucili.

Pubblicato su Libero di venerdi 20 aprile

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