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Italia in recessione

Sviluppo. Ma quando?

E' la recessione, e non solo lo spread,il nemico da abbattere. Altrimenti l'Italia chiude per Ferragosto e rischia di non riaprire più

di Enrico Cisnetto - 10 agosto 2012

Italia, chiuso (non) per ferie. Arriviamo al giro di boa di Ferragosto stremati e sfiduciati. La recessione è, come i soliti pessimisti e menagramo (tipo il sottoscritto) avevano avvertito, molto più pesante delle stime di regime: -2,5% già acquisito nel primo semestre significa che l’anno chiuderà con una perdita di almeno tre punti di pil, che si aggiungono ai sei e mezzo persi nel 2008-2009 e si divorano quel misero +1,8% messo insieme nel 2010-2011. La produzione industriale, in calo ininterrotto da dieci mesi, è scesa di oltre 8 punti, riportando intorno al 25% la perdita complessiva dal 2008 ad oggi. Le imprese che lavorano per il mercato interno (75% del pil) sono allo stremo, se non hanno già chiuso, tanto che la Bce pronostica un tasso d’insolvenza molto alto, ben più che negli altri paesi nostri concorrenti. Anche perché ci vogliono in media 107 giorni di attesa per riuscire a riscuotere un credito e sono in aumento del 32% i mancati pagamenti (+4% per controvalore), che già nel 2011 avevano registrato un aumento del 42% (+17% il controvalore). Anche sul fronte dell’export, l’unico che finora aveva tenuto, si registrano sinistri scricchiolii: dalla crescita del 10% dei mancati pagamenti di fatture verso l’estero, alla frenata dei flussi verso i paesi extra Ue (nonostante il cambio dell’euro), scesi a giugno del 7,1% in termini tendenziali (verso la Cina la contrazione è del 12%). Cosa che si somma alla prolungata stasi delle esportazioni verso l’Europa (-0,1% nei primi cinque mesi dell’anno). Per fortuna su base annua l’export nel suo complesso è ancora a +12,4%, ma è lecito domandarsi come l’economia italiana possa reggersi solo su 370 miliardi di esportazioni, tanto più se la tendenza positiva dovesse arrestarsi. Inoltre va considerato che quel fatturato estero fa capo a una moltitudine di imprese, oltre 200 mila, ma la metà è realizzato da meno di un migliaio di aziende che superano i 50 milioni. Per quanto tempo piccole realtà che mediamente esportano poche migliaia di euro possono reggere nella competizione globale? Ma soprattutto, il restante 75% del nostro pil, composto dal manifatturiero che non esporta – e dunque destinato a soccombere, visto il crollo della domanda interna (-3% e oltre) e delle importazioni – e da un terziario di cui una consistente fetta è pubblica amministrazione, come e per quanto tempo ancora potrà reggersi in piedi? La battaglia per la sopravvivenza dell’Italia di cui parla Mario Monti deve cominciare ad essere anche e soprattutto questa, non solo quella che si combatte sul fronte dello spread. La verità è che dobbiamo usare i mesi che ci restano prima della fine della legislatura (pochi per le tante cose che ci sono da fare, ma troppi se non gli si darà un senso) per avviare un grande progetto di rilancio della nostra economia, ridefinendo il modello di sviluppo – visto che quello vecchio, mai adattato ai paradigmi della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, non regge più – tornando a fare politica industriale prima che il nostro capitalismo perisca definitivamente, tra desertificazione industriale e depredaggio estero delle ultime cose rimaste, e facendo nuovamente circolare il denaro, attraverso operazioni straordinarie sul patrimonio pubblico e privato. Su quest’ultimo fronte va registrato come positivo l’incontro di Monti con Alfano sul tema del taglio del debito, anche se è chiaro che Monti non ci crede (altrimenti l’avrebbe già fatto, o comunque avrebbe almeno avuto la bontà di interloquire con chi da tempo gli sottopone il tema) e che quella del Pdl è proposta troppo tardiva per essere presa sul serio (nonostante ci abbia messo mano gente seria come Paolo Savona). Tuttavia, da qui bisognerà ripartire una volta tornati dalle ferie. Sul tavolo ci sono molte ipotesi: quelle liberiste – da Giavazzi che (ri)propone di vendere Eni, Enel, ecc., ma non gli immobili, a Giannino che vuol cedere tutto e subito per realizzare lo “Stato minimo” – e quelle più pragmatiche, che ora si sono arricchite della proposta Amato-Bassanini. Io continuo a pensare che sia necessario difendere l’italianità delle aziende strategiche (che errore sarebbe cedere i gioielli di Finmeccanica), che la cessione degli immobili debba essere fatta da una società (o fondo) che eviti la svendita (vedo fauci aperte) e il crollo dei prezzi (il patrimonio privato è per il 75% mattone). E che l’operazione, essendo finalizzata non solo all’abbattimento del debito sotto il 100% del pil, ma anche alla creazione di risorse da destinare allo sviluppo e agli investimenti, debba essere realizzata con il concorso degli italiani, magari in cambio di tasse cancellate (per esempio Imu). Ma sono così preoccupato che alla fine non si faccia niente che, al contrario di certi tardo-thatcheriani da strapazzo che riempiono di contumelie chi la pensa diversamente da loro, sono disposto a correre il rischio di ricette non mie pur di mettere in moto il processo. Buon Ferragosto, se il dopo sarà meglio dell’oggi.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.