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Siamo solo a metà dell'opera

Sviluppo, ma quale?

O si fa l’Italia futura o si muore. Tertium non datur

di Enrico Cisnetto - 10 settembre 2010

Speriamo che la previsione al ribasso del Fondo Monetario, che ci assegna solo uno striminzito 0,9% di crescita e un 1% (di incoraggiamento) per il 2011 – che si annuncia come l’anno della verità per la nostra economia – apra gli occhi anche i più riottosi, faccia tacere gli ottimisti di mestiere e favorisca quel processo di consapevolezza circa la centralità della “questione competitività” che si è finalmente innescato nel Paese.

Ormai è chiaro a tutti, infatti, che siamo sì usciti dalla recessione, ma che questo significa per ora due cose: che stiamo faticosamente recuperando quanto abbiamo lasciato sul terreno nel terribile biennio 2008-2009, ma che siamo solo a metà dell’opera; che questo recupero non cancella, anzi in certi casi accentua – come nel confronto con la Germania – il gap preesistente alla Grande Crisi. Dunque, noi abbiamo da affrontare e risolvere in un colpo solo tre problemi che si vanno drammaticamente sommando: colmare le distanze competitive che abbiamo accumulato nel periodo 1992-2007; recuperare le quote di reddito e di produzione perse nel 2008-2009; evitare di perdere punti nel nuovo quadro geo-politico-economico mondiale che si sta determinando nella globalizzazione post-crisi. Roba da far tremare le vene dei polsi. Ma siccome esserne coscienti è ritrovarsi a metà dell’opera, è bene che finalmente si stia creando un quadro di convergenza tra alcuni esponenti politici (penso alle dichiarazioni del presidente Napolitano e all’intervista del ministro Tremonti a Repubblica) e di altri mondi (da Draghi a Monti a Bonanni). Se poi ci dicessimo chiaro e tondo che siamo alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo, forse faremmo meno fatica. In particolare, la discussione sulla Germania – personalmente ho detto tutto, compreso la centralità della scelta politica della Grande Coalizione, sul Foglio del 20 agosto, ben prima della querelle di questi giorni – ci può aiutare a mettere a fuoco le questioni nodali cui siamo di fronte. Infatti, non basta dire “più sviluppo”, dobbiamo sforzarci di capire quale sviluppo è possibile (nel contesto globale) e quale ci è strategicamente utile (serve la qualità e la durevole sostenibilità del pil).

Dunque? Intanto partiamo da un presupposto: il 70% del pil è fatto dai servizi, e solo il 30% da industria e agricoltura. Dunque, quando ci concentriamo sul manifatturiero (export o consumi interni?) o sul costo e la flessibilità del lavoro (caso Fiat), dobbiamo sapere che stiamo parlando di una fetta importante ma minoritaria del nostro sistema economico. E siccome nell’altro 70% c’è dentro la pubblica amministrazione, sarà bene sapere che decisioni tipo riportare la sanità in capo allo Stato togliendola alle Regioni, o dimezzare gli assetti del decentramento amministrativo (abolendo le Province, diminuendo a metà il numero dei Comuni, accorpando le Regioni più piccole a quelle maggiori e cancellando molti enti minori tipo le Comunità montane), o liberalizzare alcuni servizi pubblici e privati, o privatizzare le municipalizzate, sono scelte assolutamente prioritarie e inderogabili. Nello stesso tempo occorre ripensare totalmente l’offerta turistica e sapere che servono fondi pubblici per l’infrastrutturazione materiale e immateriale di un Paese che è vecchio e arretrato. Centrali nucleari e banda larga in primis.

Ma se Obama stanzia 50 miliardi di dollari per ferrovie, strade e aeroporti, e l’Europa tarda a darsi strumenti comuni d’investimento come gli eurobond e una specifica contabilità che li metta al riparo dai vincoli di bilancio – a proposito, che brutto segnale il niente di fatto dell’Ecofin sul Patto di stabilità – noi che facciamo, aspettiamo in eterno? O piuttosto non dobbiamo fare le riforme – pensioni, sanità, decentramento, intervento una tantum sul debito pubblico – che ci possono creare quei margini di spesa che oggi non abbiamo?

Poi dobbiamo pensare all’altro 30% del pil. Qui di cose da fare ce ne sono molte – adottare in pieno la green economy, favorire l’aggregazione delle imprese, integrare l’agricoltura intensiva (OGM compresi) con l’industria alimentare – ma quella prioritaria è prendere atto delle trasformazioni che sono avvenute nel nostro capitalismo per evitare di inseguire obiettivi impossibili. Per esempio, è impossibile ricostruire la grande impresa che abbiamo quasi del tutto perduto.

Dunque, conviene allearci in modo stabile con chi – la Germania – ne è invece dotata, sapendo che le nostre imprese di media taglia sono la migliore risorsa di cui disponiamo. Tra non fare ricerca e innovazione, come adesso, e disporne in modo indiretto grazie ad alleanze con altri, è ovvio cosa sia meglio.

E lo dice uno che alla questione dell’italianità ha sempre badato (quando era ancora possibile difenderla e c’era chi non lo ha fatto in nome di scelte ottusamente ideologiche). Quanto ai settori produttivi, dobbiamo abbandonare le produzioni povere e labour intensive, a favore di quelle dove il valore aggiunto si crea intorno alle tecnologie digitali. E per aiutare gli imprenditori a scegliere, dobbiamo usare il doppio pedale degli incentivi e dei disincentivi fiscali. Ma questo, è ovvio, richiede un nuovo sistema politico, pensato in funzione di questi obiettivi. Intorno ai quali o si fa l’Italia futura o si muore. Tertium non datur.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.