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Garantire il futuro a dieci milioni di lavoratori

Sul precariato manca il coraggio

Dualismo del mercato superabile solo intaccando le garanzie dei “protetti”

di Donato Speroni - 07 aprile 2006

“Generazione precaria: un tema che infiamma la Francia e che il prossimo governo, qualunque sia, non potrà ignorare”. Così annuncia l’inchiesta di copertina del Corriere della Sera Magazine di giovedì 6, con una foto di Julie Coudry, la bella studentessa della Sorbona che è tra i leader della rivolta francese.

L’inchiesta di Vittorio Zincone si aggiunge al ricchissimo materiale che in questo periodo si è accumulato sull’argomento, dalla polemica tra Tiziano Treu e Pietro Ichino alle analisi di Sandro Boeri e Pietro Garibaldi sulla voce.info. Materiale dal quale si può sostanzialmente trarre una conclusione: “il prossimo governo, qualunque sia”, non saprà che pesci pigliare, perché sul precariato i programmi elettorali sono carenti e contraddittori e il dibattito si svolge tra posizioni difficilmente conciliabili all’interno degli schieramenti. Il documento della Casa delle Libertà addirittura ignora il problema. Quello dell’Unione destina gran parte delle risorse reperibili alla riduzione del cuneo fiscale, costosa misura che non servirà certamente a ridurre il dualismo del mercato del lavoro tra lavoratori protetti e non protetti, cioè il vero problema che rischia di diventare esplosivo.

Come ha scritto Michele Salvati, l’opzione di scaricare il problema del precariato (cioè la flessibilità indispensabile alle aziende) esclusivamente sui giovani è stata una scelta politica, perché si è preferito tutelare i percettori di reddito più anziani, che hanno famiglia e che potrebbero essere danneggiati da un livellamento del mercato del lavoro; ma questa opzione è diventata ingestibile da quando il precariato si è esteso anche agli adulti oltre i trent’anni. Ed è quello che sta avvenendo, perché a sei anni dal primo lavoro meno di metà degli assunti a tempo determinato ha visto convertire la propria assunzione in un posto fisso.

D’altra parte non si può tornare indietro: sappiamo tutti che l’economia globalizzata è quella che è, e che le imprese non possono più dare garanzie paragonabili al vecchio posto a vita. E allora per cercare una via d’uscita proviamo a fissare alcuni punti.

    1) Innanzitutto, quanti sono i precari? Secondo una rilevazione diffusa un anno fa dall’Istat, il lavoro interinale, le prestazioni d’opera occasionali, le collaborazioni coordinate sono complessivamente 650mila. La Cgil contesta questi dati e sulla base delle posizioni parasubordinate attive presso l’ Inps sostiene che sono almeno il doppio. La divergenza riguarda i criteri di elaborazione (Istat “fotografa” una determinata settimana, l’Inps conta tutte le posizioni attive in un dato anno), ma ai fini del discorso generale poco importa. Al numero dei precari così conteggiato va infatti aggiunto comunque quello dei lavoratori dipendenti con contratto a termine (più di due milioni nella media 2005), nonché una parte consistente del popolo delle “partite Iva” che è costretto ad un’attività autonoma, ma che in realtà lavora per un solo committente. E l’area del precariato si potrebbe allargare ancor più, se si considera che dei 14,5 milioni di lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato, moltissimi lavorano per piccole o piccolissime imprese a continuo rischio di chiusura. Esiste insomma un mondo vastissimo di lavoratori (dieci milioni?) che inevitabilmente deve prefigurarsi un futuro di precarietà.
    2) Tuttavia, precarietà non significa disoccupazione. Le scarse classi demografiche che si affacciano adesso al mondo del lavoro non avranno grosse difficoltà a trovare un posto anche se la propensione a cercare sempre e comunque un lavoro impiegatizio crea un “mismatch” rispetto al bisogno di “colletti blu”. Ci sono infatti tanti lavori comunque qualificati (artigiani, operai, conduttori d’impianti), che sono in misura crescente affidati ad immigrati. Ma il lavoro nel sistema c’è e continuerà ad esserci, soprattutto se l’economia si rimetterà in moto; anche se nella vita toccherà di cambiare più posti e magari di fare cose diverse da quelle per le quali si è studiato. Il problema è dunque quello di assistere con adeguati ammortizzatori sociali il passaggio dall’uno all’altro posto. Senza più commettere l’errore di elargire indennità a vita, ma con un sistema di protezione adeguato e con indennità estese a tutti i disoccupati ma decrescenti nel tempo, gestite efficacemente con formazione e controlli adeguati. Proposte in questo senso sono state avanzate da Sandro Boeri sulla voce.info. Anche il programma dell’Unione timidamente ne parla, ma privilegia la revisione della legge Biagi (un annuncio che si tradurrà solo in provvedimenti di bandiera, perché certo non si possono trasformare i precari in stabili con la bacchetta magica) e destina le risorse alla riduzione del cuneo fiscale.
    3) Il vero punto qualificante per un governo coraggioso, un punto che non comporta costi economici ma richiede un grande coraggio sociale, è l’unificazione del mercato del lavoro. Guardiamo per esempio quello che sta accadendo nelle amministrazioni pubbliche e che Ichino ha sottolineato nei suoi articoli. Si sa che nell’impiego pubblico molti dipendenti lavorano poco e male perché sono comunque illicenziabili; in passato le amministrazioni andavano avanti con i nuovi assunti, ma da un po’ non si possono bandire nuovi concorsi per ragioni di bilancio. E allora? Ci sono amministrazioni che mantengono un minimo di efficienza con collaboratori co co co, perché nel settore pubblico non si è neppure proceduto alla trasformazione delle collaborazioni continuative in contratti a progetti. Nel pubblico come nel privato, abbiamo dunque un doppio mercato, con nettissime differenze di reddito, previdenza e sicurezza. Si può superare questo dualismo? Forse, per esempio prevedendo un unico contratto con garanzie crescenti, che comporti contributi in aumento e maggiori tutele contro il licenziamento man mano che l’anzianità cresce. Questo però significa limare il “gradino” giuridico che rende così poco conveniente, per le imprese, il passaggio di un dipendente dal contratto parasubordinato o a termine a quello a tempo indeterminato. Si ridurrebbero in qualche modo le garanzie per il rapporto a tempo indeterminato nei primi anni: una riforma razionale, ma impolitica. Se pensiamo a tutto quello che è successo pro e contro l’articolo 18, inutile battaglia simbolica che spostava ben poco nella realtà dei rapporti di lavoro, si capisce quanto è difficile incamminarsi su questa strada per un sistema bipolare che condanna liberali e riformatori, sia a destra che a sinistra, ad essere comunque minoranza.

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