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Come implementare un accordo di pace

Sudan, basterà un tribunale internazionale?

L’analisi dei fatti di chi ha avuto esperienza sul campo come consulente per la pace

di E. M. Le Fevre Cervini e M. C. Bentivoglio - 04 maggio 2005

Sudan: il più grande Paese del continente africano, che consta di oltre 40 milioni di abitanti è stato tormentato da una guerra apparentemente senza fine, che dall’indipendenza fino ad oggi ha causato milioni di morti ed altrettanti profughi. Il sud, in maggioranza cristiano e animista, è in lotta contro il governo di Khartum dal 1983, quando l’allora Presidente Jafar Numayri sciolse il governo regionale e impose la Sharia (legge islamica) in tutto il Paese. Il contrasto tra l’Africa araba e l’Africa nera e lo scontro tra un nord ed un mondo islamico in continua espansione verso un sud ed un mondo pagano che per più di duecento anni è stato l’obbiettivo dell’azione civilizzatrice delle tribù del nord, descrive il Sudan come un Paese in cui, per ragioni di natura culturale e religiosa, i governi sono riusciti ad attuare delle vere proprie politiche di pulizia etnica caratterizzate dalla deportazione di massa e dal massacro dei civili.

Il 10 gennaio 2005 la storica firma avvenuta a Nairobi tra il Governo del Sudan ed il gruppo ribelle del Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) ha segnato il raggiungimento di un compromesso tra le due parti, costituendo un punto di svolta nel lunghissimo cammino verso la pace. Il documento stabilisce un’amministrazione congiunta che, in seguito a sei mesi di pre-transizione, condividerà il potere e le entrate statali per i prossimi sei anni.

Alla fine di questo periodo verrà indetto negli Stati del sud un referendum con cui verrà deciso se il Sudan meridionale diverrà uno Stato indipendente. La ripartizione della ricchezza, soprattutto del petrolio di cui il Sud Sudan è estremamente ricco, ha rappresentato uno dei punti principali delle trattative. Nel 2001 la popolazione dei maggiori villaggi del Sud Sudan aveva richiesto ai proprio acquirenti più vicini di evitare di importare il petrolio almeno fino a quando il Sudan non avesse raggiunto una pace giusta e consolidata, insistendo sul fatto che il petrolio sudanese veniva sfruttato a spese di migliaia di vite umane, di gente uccisa, schiavizzata e spostata di forza dalla sua terra per mano di forze governative e milizie arabe disposte a tutto pur di liberare più territorio possibile per dare spazio all’espansione e allo sfruttamento del petrolio.

La firma dell’Accordo preannuncia un periodo di grandi opportunità di ricostruzione politica, sociale ed economica del Paese, ma riuscire ad implementare l’Accordo costituisce una sfida ancor più impegnativa che non riuscire a stilarlo: la firma di Nairobi segna sicuramente una tappa fondamentale e imprescindibile del cammino verso la pace, ma non ne costituisce la conclusione.

Nel maggio del 2004 i Protocolli di pace firmati nella città keniota di Naivasha hanno riguardato sostanzialmente la divisione del potere e delle aree di conflitto gettando le basi per l’ufficializzazione degli Accordi futuri, ma attualmente sono stati sollevati molti dubbi sulla attuabilità e sulla sostenibilità della pace. Mentre il Sudan celebrava una nuova era infatti, ci si chiedeva per quale motivo l’Accordo del 9 gennaio non comprendesse la regione nord-occidentale del Darfur, dove i combattimenti in corso hanno provocato 180.000 morti ed un milione di profughi. La situazione umanitaria di questa regione rischia infatti di complicare l’applicazione dell’Accordo: nel corso del 2004 e fino ad oggi il Governo del Sudan ha lasciato piena libertà d’azione alle milizie arabe conosciute come Janjaweed, che hanno iniziato ad attaccare le popolazioni sospettate di aiutare o solamente di simpatizzare per i gruppi ribelli del Sudan Liberation Movement (SLM) e del Justice and Equality Movement (JEM).

Fin dalla fine del 2003 i Janjaweed hanno ucciso, stuprato e sequestrato persone, distruggendo le abitazioni ed altre proprietà, comprese le fonti idriche ed il bestiame. Il tutto con l’attivo sostegno dell’esercito sudanese i cui bombardamenti aerei hanno spesso preceduto di poche ore l’arrivo dei Janjaweed, lasciando supporre che si trattasse di azioni coordinate. Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni a seguito di questi raids, con il risultato che ampie aree della regione sono attualmente spopolate. Anziché adottare azioni decisive per contenere le diffuse violazioni dei diritti umani, il governo del Sudan ha attaccato la libertà di espressione in modo da controllare l’informazione. E tutto questo è accaduto nella noncuranza della Comunità Internazionale come se si aspettasse da tempo ed inermi che la situazione divenisse irreversibile.

È perciò stato il terribile impatto umanitario degli attacchi indiscriminati alla popolazione civile a caratterizzare il nucleo centrale di questa crisi, causa, i terribili contrasti di razza e di etnia non solo nella regione del Darfur, ma anche nelle Nuba Mountains, Blue Nile e Abyei, quest’ultima ancora in guerra e motivo di contesa tra le Parti in sede di colloqui di pace. Il dramma nel Darfur può essere descritto come un conflitto armato interno le cui Parti coinvolte, secondo il diritto internazionale generalmente riconosciuto, sono obbligate a rispettare l’Articolo 3 della Convenzione di Ginevra costituita nel 1949 che proibisce la violenza contro i civili. Il Governo del Sudan detiene la responsabilità di perseguire, secondo la legge nazionale, ciascuna Parte del conflitto che sia colpevole di aver commesso abusi, ed è inoltre responsabile delle forze che sono sotto il suo controllo.

“Il Governo del Sudan non ha perseguito una politica di genocidio nel Darfur”, era stato questo il verdetto della Commissione d’inchiesta dell’ONU riunitasi nel febbraio di quest’anno. Questa conclusione, avverte il documento, non deve portare in alcun modo a minimizzare la gravità della situazione poiché in Darfur sono stati commessi crimini non meno seri e odiosi di un genocidio. Ma se secondo la Convenzione di Ginevra del 1948 rientrano nella definizione di genocidio tutti quegli atti commessi “nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, probabilmente ciò che manca al Darfur è il numero delle vittime viste le potenziali caratteristiche per essere definito tale.

I dati sono comunque allarmanti. Diecimila morti al mese negli ultimi due anni, una media che non accenna a diminuire sicuramente neanche sotto la recente attenzione che la Comunità Internazionale ha manifestato. La risposta delle ONG e delle Organizzazioni Umanitarie sembra comunque non avere fine a causa del costante moltiplicarsi delle persone nei campi profughi, un flusso che Jan Engelman, coordinatore degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, ha previsto possa arrivare ai tre milioni nei prossimi mesi.

Storie di morte, stupri e violenze non lasciano spazio a molti dubbi: il Darfur è tutt’oggi in guerra; c’è carenza di dialogo politico senza il quale la Comunità internazionale non può agire in modo più concreto nei tre stati che costituiscono questa regione. Anche l’Unione Europea ha ammesso la problematicità della situazione ed il continuo perpetrarsi di violenze. Christian Manahl, consigliere politico per l’Africa Orientale del Consiglio Generale dell’Unione Europea, in un’intervista rilasciataci durante il Forum internazionale “Quale pace per il Sudan” tenutosi a il 18 e 19 Marzo a Milano, vede la necessità di dare alle truppe dell’Unione Africana un ruolo ben più importante che di mera sicurezza della Comunità internazionale nella regione.
È necessario però non dimenticare che il “problema Sudan” non si esaurisce nel Darfur. La fragile situazione nel resto del paese, ben più sconosciuta necessita di essere seguita per assicurare la pace tra Nord e Sud proprio all’indomani dell’accordo di Nairobi.

Sebbene il processo di pace tra nord e sud sia stato firmato rimane un accordo scaturito dalla decisione politica dei due attori principali, il GoS e lo SPLA. Rimangono tensioni, in alcuni casi gravissime, nelle altre parti del paese, una serie di cause radicali e profonde del conflitto che non sono state effettivamente esplicitate, si pensi ancora una volta alla possibile scissione del paese o al problema del petrolio nel Sud Sudan. L’importante ruolo della società civile sudanese ed internazionale, la prima messa a tacere duramente e la seconda largamente ignara della grave situazione seppur rappresentata dall’importante ruolo delle ONG, rimane un importante appiglio per un futuro di pace nel paese. Nonostante le ripetute accuse rivolte alle ONG che si ritrovano a lavorare sul campo, talvolta ambiguamente giudicabili nei loro interventi per via della peculiare natura del conflitto, è comunque doveroso riconoscere il loro fondamentale ruolo nell’aver richiamato l’attenzione del mondo e dei media sui vari drammi del Sudan. Quello che è più sentito dalla comunità sudanese, soprattutto quella del sud è la necessità di giustizia. Una giustizia che permetta ad un popolo di non convivere con l’impunità di violenze ed atrocità che hanno sconvolto le ultime decadi di questo paese.

La Comunità Internazionale ha iniziato un ampio dibattito sulla necessità di costituire un pool di giudici in grado di emettere condanne per i crimini commessi negli ultimi ventidue anni. Un Tribunale ad Hoc, voluto sostanzialmente solo dagli USA, o l’intervento della Corte Penale Internazionale, di cui però il Sudan non è firmatario, rientrano tra le soluzioni possibili. Un Tribunale che però, ad ogni modo, non ricalchi quello istituito a suo tempo, e tutt’ora attivo, per i crimini commessi in Ruanda, che non ha sicuramente svolto il ruolo atteso. Proprio il primo aprile 2005 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha votato una nuova Risoluzione che autorizza il deferimento degli imputati di crimini di guerra nel Darfur alla Corte Penale Internazionale (Cpi) dopo che gli Stati Uniti avevano ritirato la loro opposizione di principio. Gli Stati Uniti hanno comunque espresso la loro perplessità tanto che Washington ha infatti ottenuto garanzie ferree: gli americani impegnati in Sudan non correranno il rischio di venire consegnati alla Corte.

Nel processo di pace in corso, ove è contemplata la smobilitazione e la riabilitazione delle truppe in eccesso, è auspicabile che il disarmo non comporti la nascita di nuove tensioni e che sia la Comunità Internazionale a vegliare sulla sua effettiva attuazione, grazie anche ai 10.000 “caschi blu” che, su decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, verranno inviati al più presto nel Sud Sudan.

E.M. Le Fevre Cervini / M. C. Bentivoglio

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