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Diamo spazio alle grandi riforme strutturali

Studio e lavoro, due mondi da riunire

Le cause politiche e sociali di un paradosso tutto italiano

di Enrico Cisnetto - 06 aprile 2010

Passi per la disoccupazione derivante dalla cattiva congiuntura e per la scarsa crescita economica che sappiamo produrre. Ma quella giovanile che deriva dallo squilibrio tra domanda che rimane inevasa perché c’è carenza di diplomati e laureati in specializzazioni tecniche e offerta in esubero per l’eccesso di “pezzi di carta” in materie umanistiche, beh quella proprio non è tollerabile.

E bene ha fatto il Messaggero a porre con grande evidenza la questione, attraverso i dati forniti da Confindustria, che dimostrano come le scuole e le università italiane sfornino potenziali disoccupati con improbabili titoli di studio nel campo politico-sociale, linguistico, letterario e psicologico, mentre le aziende cercano – anche in tempi di crisi come questi – tutt’altro tipo di preparazione, che va da diplomati nel settore meccanico ed elettronico a laureati in ingegneria, economia e persino in medicina e giurisprudenza (facoltà che pure nel passato erano frequentate in eccesso).

Così siamo passati ad essere il paese in cui non si volevano più fare i cosiddetti lavori umili e faticosi – cosa che ha aperto le porte ai flussi migratori di cui per altri versi ci lamentiamo – al paese in cui a fronte di una disoccupazione giovanile del 28% ci permettiamo il lusso di lasciare inevasa domanda di tecnici, ingegneri, infermieri, medici, fisioterapisti, farmacisti, statistici, progettisti. Una contraddizione che dovrebbe far riflettere chi si adombra quando si parla di declino.

Ma quali sono le cause di questo incredibile paradosso? Ci sono motivi politici e culturali che possono spiegarlo. Politici, perché questo è un chiaro segno di mancanza di programmazione. Un malinteso concetto di “autonomia didattica” e i disastri prodotti dal “federalismo degli atenei”, che ha moltiplicato le sedi a discapito dell’eccellenza, hanno fatto sì che nessun organismo nazionale, tantomeno il ministero, programmasse gli accessi collegandoli alle richieste delle imprese.

Inoltre, non meno perniciosa è stata l’idea del legislatore di dar vita ad una pletora di lauree brevi di nessuna utilità e infima qualificazione, dove non a caso il tasso di disoccupazione post-laurea è più alto, a fronte delle quali si riscontra la mancanza di indirizzi di studio che altrove sono considerati di grande importanza – qui posso portare una testimonianza personale, visto che mia figlia si è laureata in biofisica a Berlino – cosa che, insieme alla povertà della ricerca, determina la fuga dei cervelli all’estero. In più, nessuno ha sanzionato i rettori che hanno preferito battere la strada della quantità – far cassa con più matricole possibili – anziché quella della qualità.

Se a tutto questo si aggiunge l’insensata opposizione politica, per ragioni ideologiche ottocentesche, sia alla selezione meritocratica dei più meritevoli, sia all’uso delle “quote” e del “numero chiuso” come filtro per evitare diplomi e lauree inutili, sia infine al raccordo tra scuola e università con il mondo delle imprese per rendere le prime più efficienti, se ne deduce che il sistema politico ha la gran parte delle responsabilità di questo stato di cose. D’altra parte, che ci si può aspettare da una classe politica abituata a ragionare sul brevissimo periodo, e da quello trarre il massimo del consenso e del vantaggio, se non di considerare la programmazione dell’economia e della società dei vecchi orpelli di un pensiero che fu?

A questo si aggiungono ragioni culturali diffuse, di mentalità collettiva, che negli ultimi hanno prevalso nella società. Mi riferisco prima di tutto al rapporto con l’impegno e la fatica. Fateci caso: le specializzazioni che mancano o fanno riferimento a corsi di studio più difficili o a futuri lavori più impegnativi.

Se per conseguire una laurea in ingegneria bisogna “sudare” 100, per portarsene a casa una in scienza della comunicazione – da dove esce una vera e propria orda di ragazzi mediamente ignoranti e impreparati a tutto, per di più presuntuosi – basta un equivalente di dieci. E “pezzo di carta” per “pezzo di carta”, i ragazzi e le loro famiglie nella stragrandissima maggioranza dei casi scelgono la strada più breve e facile. Senza capire che quell’errore di valutazione poi lo pagheranno una volta pronti per il mercato del lavoro.

E’ chiaro, dunque, che non stiamo parlando di una semplice distorsione, ma di un problema cruciale per il futuro del Paese, e in particolare dei nostri figli. Dalla soluzione del quale non dipende soltanto il buon funzionamento del mercato del lavoro, ma anche il livello qualitativo della nostra economia (migliore formazione significa più crescita), della nostra vita personale e sociale (più merito significa rimettere in moto l’ascensore sociale, oggi drammaticamente fermo). Come intervenire? E’ evidente che le critiche fin qui svolte contengono già molte risposte. Dobbiamo ripensare il nostro sistema scolastico, universitario e di formazione professionale, toglierglielo dalle mani delle autonomie e renderlo capace di programmare i flussi attraverso una stretto rapporto con il mondo del lavoro.

Più in generale, dobbiamo favorire i meritevoli e coltivare le eccellenze, spendere molto di più in ricerca, rivalutare l’impegno e la fatica (cara Rai, fai una bella fiction istruttiva su questo). In più aboliamo il valore legale del titolo di studio e apriamo la finestra in molti ambiti professionali in modo che il vento della concorrenza spazzi via le incrostazioni corporative. Troppo? Ma non si è detto che ci sono tre anni senza scadenze elettorali per fare le grandi riforme strutturali….?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.