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Impegniamoci a vincere la battaglia contro il torpore

Sognando il Palazzaccio...

Far funzionare meglio tutto, si può. Basta volerlo

di Davide Giacalone - 28 gennaio 2010

Ho sognato che, nell’aula magna del Palazzaccio, sede della corte di Cassazione, l’inaugurazione dell’anno giudiziario segni una svolta. Ho sognato di ascoltare queste parole.

Autorità, Televisioni, colleghi magistrati che ascoltate, per ora, poi vi alzerete ed andrete via quando la parola passerà al governo, sicché tornerete per leggere un proclama, comportandovi, quindi, come una specie di comitato rivoluzionario, laddove, invece, siete solo un collettivo reazionario, o, più probabilmente, una manica d’esibizionisti che si mette in mostra ad uso e consumo delle telecamere, più travestiti da magistrati, che realmente tali. Signori presenti, insomma, quest’anno sarò assai breve, aiutandovi a vincere la ricorrente e rituale battaglia contro il torpore. Abbiamo tutti una certa età, cerchiamo, allora, d’essere saggi e non solo vecchi.

Non vi leggerò i dati, non vi aggiornerò sul grado di decadimento della giustizia. Tanto sono, più o meno, quelli dell’anno scorso, e, se continua così, teneteli buoni anche per il prossimo. Ho visto che un quotidiano ha anticipato i numeri relativi al distretto di Venezia, copiandoli da una relazione che deve ancora essere tenuta. Oramai è così, la giustizia italiana, non riusciamo a tener riservate neanche le pagine dei discorsi rituali. L’anno scorso vi dissi che la nostra situazione è peggiore di quella africana. Adesso, che paragone posso mai trovare? Non ve li ripeto, i dati, anche perché ho l’impressione che non li legga nessuno. Ogni anno si sentono lamenti uggiolanti, ma la vera sostanza è altra: se la durata media dei processi è così diversa, da tribunale a tribunale, è segno che le leggi non c’entrano nulla, visto che nessuno s’è ancora fatto venire in mente il federalismo giudiziario.

Se in un tribunale il carico di lavoro diminuisce ed in un altro aumenta, è segno, in linea di massima, che nel primo lavorano e nel secondo assai meno, che nel primo c’è un’intelligenza a dirigere l’attività, mentre nel secondo un burocrate inetto. E non se ne esce, gentili Signori, se non premiamo i primi e puniamo i secondi. Guardate, a scanso d’equivoci, che di magistrati bravi, e lavoratori, ce ne sono tantissimi. Ma se teniamo in maggior conto, se premiamo l’amor proprio, quando non la prosopopea, solo di quelli che passano il tempo a farsi fotografare, o di quelli che lo impiegano truschinando fra le correnti, ci vuol poco a capire che il passaggio successivo all’Africa è l’ibernazione, al Polo Sud.

Lo so, qualcuno dirà che è difficile approntare rimedi, perché noi magistrati ci siamo corporativizzati e correntizzati. E’ vero. L’età mi consente di dirlo, perché, tanto, ho già avuto quel che volevo. Ma se pensate che la colpa sia solo nostra, vi sbagliate. Rispondete a questa domanda: che senso ha tenere aperte 1292 sedi giudiziarie? E’ una roba da matti, che comporta una continua carenza e sperequazione d’organici, pur in un Paese che ha più magistrati e spende, pro capite, per la giustizia, più della media europea.

Ma provate a chiudere una di queste sedi, la più deserta, la più scalcagnata, e vi arrivano le proteste e le pressioni. Le prime dai parlamentari dell’opposizione e le seconde da quelli della maggioranza. Cambiate colore al governo ed avrete le medesime doglianze, ma a parti invertite. La politica si scanna su temi generali, come la separazione delle carriere o l’obbligatorietà dell’azione penale, di cui non parlo perché io l’ho letta, la Costituzione, mica solo la porto a spasso, ma quando si toccano gli interessi d’un campanile ecco che si riuniscono a difesa dell’esistente. Che non funziona e, come vi dicevo, ci fa peggiori degli africani (con rispetto parlando, ma, oh, saranno culla dell’umanità, mica del diritto!).

Del resto, a me pare che la scena pubblica sia proprio digiuna, di diritto. A voi, cari Signori, v’attizzano i processi, meglio ancora le indagini, per offendere o prendere le parti degli accusati, cosa che non vi compete, ma delle sentenze ve ne fregate. Vi piace fare, al bar o in redazione, il nostro lavoro, chiedendoci di non fare il vostro, perché pensate che tutto si risolva nell’imputare e nel difendere. Invece ci sono le sentenze, che chiamiamo verità giudiziaria. Noi assolviamo uno, e voi dite che è stato al centro di un sudicio processo. Lo condanniamo, e voi dite che s’è difeso con onore. Ma che lavoriamo a fare?

E aggiungo: è fuori di dubbio che una parte della magistratura s’era messa in testa (teorizzandolo apertamente) che si sarebbe dovuta processare la politica, in modo da cambiare gli equilibri al posto degli elettori, e quelli, secondo me, andavano buttati fuori, ma c’è anche una parte della politica che ha deciso di non farsi processare, inventando ostacoli puerilmente fantasiosi e scassando, ove mai ve ne sia bisogno, quel che resta della giurisdizione. Scusate, ma non sarebbe meglio stabilire, in modo chiaro, chi possiamo processare e chi no, salvo poi lasciare agli elettori il compito, con un pizzico di chiarezza, di stabilire chi, eventualmente, deve essere mandato a casa?

In questo mondo giudiziario non ci sono nato, ma ci sono cresciuto. Lo conosco, credetemi. Ogni giorno, nelle aule di giustizia, si trascina un’umanità dolente, che non finirà mai in televisione, che non si candiderà in alcun partito, che per errori della giustizia, o per errori propri (perché, cribbio, esistono anche i colpevoli), paga un prezzo esagerato. E c’è un’umanità festante, che del crimine ha fatto un mestiere, che insegna procedura agli avvocati e che ride nel vederci annaspare nei rinvii, la gran parte dei quali è dovuto a mancare notifiche o errori procedurali. Una scena orribile.

A proposito degli avvocati, e concludo, anche l’altra metà delle toghe lascia assai a desiderare. Hanno preso i nostri vizi, si sono corporativizzati e oggi bramano per un ordinamento forense che sembra confermare una regola terrificante: ci sono leggi vecchissime, quella è del 1933, che andrebbero rivoluzionate, ma se ci mettono mano riescono a peggiorarle, se non altro ringiovanendole.

Ho finito, state tranquilli. Le riforme non si fanno in quest’aula e, del resto, se ne fanno poche anche altrove (in compenso, si fanno caterve di leggi). Io, qui, vi dico che si potrebbe far funzionare meglio tutto, che non ci vuole molto, che non costa, anzi, ci si risparmia. Solo che dobbiamo piantarla d’essere, ciascuno, uguale a quel che siamo stati e siamo. Ci ho provato. Ora vado in pensione.

Pubblicato da Libero

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