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La riforma del mercato del lavoro

Sindacati antisindacali

I sindacalisti si appoggiano ad una retorica operista perché impegnati a difendere sè stessi

di Davide Giacalone - 04 gennaio 2012

Il guaio dei tre sindacati confederali è che, non rappresentando più i lavoratori, provano a condurre un’impossibile guerra contro la realtà. Nel loro atteggiarsi, nel loro quotidiano tentativo di fermare il tempo e il mondo, c’è il riassunto di un’Italia che non si rassegna all’abbandono del passato, che pretende di farlo sopravvivere battendo i piedi e alzando la voce, laddove, semmai, è largamente corresponsabile nell’avere condannato il nostro mercato alle arretratezze che lo caratterizzano.

Sarebbe non solo ingeneroso, ma anche falso attribuire al sindacato tutte le colpe. Me ne guardo bene. Il sindacato non le ha anche perché, da molti anni, è debolissimo, perde funzione, ha fra i suoi iscritti più pensionati che lavoratori. Eppure ha svolto e ancora svolge un ruolo di primo piano, dovuto al fatto che il patto consociativo, poi divenuto concertativo, si basa su una finzione: che il sindacato rappresenti i lavoratori, che la Confindustria rappresenti gli imprenditori e che la politica, concertando e codecidendo con queste entità si procuri il consenso delle “parti sociali”. A smentire tutto questo è bastata la condotta di Sergio Marchionne, che ha scaricato tutti e ha trovato dalla sua parte i lavoratori. Il governo Monti ha debuttato sostenendo due posizioni, in contraddizione fra di loro: rispetteremo tutti gli impegni presi con l’Unione europea (ancora oggi andiamo avanti sulla base delle lettere scambiate con il precedente governo); lo faremo di concerto con le parti sociali. Il capitolo delle pensioni ha chiarito l’inconciliabilità delle due cose: o si procede o si concerta. Ove si faccia la seconda cosa ci s’inchioda.

In quel caso il governo è, giustamente, partito dalla consapevolezza che le riforme già fatte avevano messo, in prospettiva, il sistema in equilibrio, rendendolo sostenibile, ma le scadenze erano troppo lontane e incompatibili con gli altri impegni che prendevamo innanzi ai mercati e alle autorità europee. Ha accorciato quelle scadenze, compiendo l’operazione fin qui migliore di questo esecutivo. In quelle lettere, però, non ci si chiedevano solo tagli e tasse, ma anche misure per lo sviluppo. Quelle che ancora mancano. Queste misure, all’evidenza, non possono consistere in maggiore spesa pubblica, quindi devono incarnarsi in riforme che rendano più produttivo il nostro sistema. Sono venti anni che perdiamo competitività, venti anni nel corso dei quali i sindacati hanno preso parte alle scelte, o, meglio, che hanno premuto perché non fossero fatte.

Quella perdita non solo c’impoverisce, ma ci rende ingiusti, pesando negativamente in special modo sui giovani. Sarà bene che nessuno dimentichi sul conto di chi fu messa la cancellazione dello scalone pensionistico, all’epoca del governo Prodi: su quello dei co.co.co, vale a dire di quei “precari” (per usare il linguaggio sindacale, che non condivido), che a chiacchiere si vorrebbero difendere. Quell’ingiustizia deve essere sanata. L’occasione oggi c’è, e consiste nella riforma del mercato del lavoro, vale a dire anche in quella degli ammortizzatori sociali. Si deve abbandonare la difesa dei posti di lavoro, che comporta anche la difesa dell’improduttività e degli imprenditori incapaci, per approntare la difesa dei lavoratori, quindi il loro ripiazzamento nel mercato. Il guaio di questa scelta è che toglie potere al sindacato, o, almeno, a questo sindacato ideologico e arretrato. Sbaracca il tavolo della concertazione, aprendo il mercato alla competizione.

Una scelta, quindi, che trova contrari tutti i conservatori. Che si trovano a sinistra, a destra, ma che popolano massicciamente i sindacati. I cui vertici, oramai, rappresentano solo sé stessi. Questo non è un ragionamento antisindacale, è, piuttosto, la constatazione che l’apparato sindacale è impegnato a difendere sé stesso, appoggiandosi ad una retorica operista oramai fuori dal mondo e dalla realtà. Sono i sindacalisti, insomma, ad essere antisindacali (nel senso nobile del termine). Su un punto, però, hanno ragione. Per essere precisi è Susanna Camusso ad avere ragione, quando ha osservato che vorrebbe sapere chi rappresenta questo governo, da quale mandato raccoglie la propria forza. Questione legittima, essendo esclusa la risposta elettorale, vale a dire quella democratica.

Questo governo ha natura commissariale e nasce dai fallimenti della politica, cui il sindacato è stato partecipe. Il che, paradossalmente, porta alla conclusione opposta a quella che il capo della Cgil vorrebbe: ha un senso e si mantiene in piedi se procede, se fa il necessario senza fingere che il consenso sia quello delle burocrazie sindacali e politiche, se si comporta da commissario effettivo, dotato della fiducia parlamentare, in caso contrario, se concerta, tentenna e arretra (così com’è sembrato a proposito dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori), perde funzione e cade. Come le cose inutili.

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