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Pd, PdL e democrazia plebiscitaria

Silvio e Walter come Chavez e Putin?

Dal bipolarismo armato al bipartitismo disarmante, con due non partiti da gazebo

di Enrico Cisnetto - 30 novembre 2007

Sbaglia chi pensa che la vicenda dei vertici Telecom e quelle che seguiranno sulla scena del risiko dei poteri, Mediobanca-Generali in testa, siano da analizzare utilizzando lo schema della contrapposizione Berlusconi-Prodi sul fronte politico e Intesa-Unicredit sul terreno dell’establishment finanziario. No, chi immagina ancora da una parte il duo Bazoli-Prodi, con Mps a supporto, e dall’altra il trio Geronzi-Berlusconi-D’Alema con i “francesi” (Bollorè, Bernheim, Tarak Ben Ammar) e l’alleanza “di fatto” con Profumo (non fosse altro per la contrapposizione a Passera e Bazoli), non tiene conto di alcune novità sostanziali, la prima delle quali è l’ingresso in campo di Veltroni e il nuovo “patto della crostata” che Bettini e Letta hanno cucinato tra il sindaco di Roma e il Cavaliere. Se così non fosse, non si capirebbe la lunga gestazione che la “scontata” ascesa al vertice di Galateri (in conto a Telefonica, il minimo che si poteva dare a quelli che sono pur sempre gli azionisti di riferimento) e Bernabè (in conto alle nuove alleanze in via di formazione) ha dovuto subire, così come non si capirà fra breve quella che mi sento di pronosticare sarà la nuova vicepresidenza di Telecom in capo all’ottimo Tarak Ben Ammar (al posto di Buora). Già, il tribolato riassetto di Telecom non solo ha rappresentato la cartina di tornasole degli equilibri che nella mappa del potere si andranno a determinare in una serie di partite ancora aperte – dall’assestamento dei poteri in Mediobanca, per nulla definito, alla conseguente battaglia per il controllo delle Generali, passando per Rcs e per la definizione di quello che sarà il ruolo di Unicredit sull’intero scacchiere, che potrebbe non essere così scontato come qualche sottovalutatore di Profumo ha pensato – ma è stata anche la prova generale dei nuovi assetti che il sistema politico sta cercando.

Dunque, non è pura coincidenza il fatto che lo sbloccarsi dell’impasse Telecom ci sia stato proprio quando Berlusconi annunciava la sua “svolta”. Certo, quella per il Cav ha significato ribaltare in termini di immagine la sconfitta sulla “spallata”, riconquistare il centro del ring politico, dimostrare agli italiani di avere il coraggio di mandare a casa alleati e classe dirigente in nome della semplificazione e pacificazione della politica. Ma non solo. Essa è stata la premessa per un nuovo sistema di alleanze sul terreno del potere. Ancora fragile, per carità. Sicuramente tutto da finir di costruire, sperimentare, consolidare. Ma già disegnato, immaginato. E di fronte al quale, prescinderne nel giudicare ciò che in queste ore sta accadendo sulla scena romana, è un errore imperdonabile. Si è detto: Berlusconi ha liquidato il bipolarismo bastardo che aveva lui stesso creato, decretando così la definitiva morte della già comatosa Seconda Repubblica, e per farlo si è convertito al proporzionale e alla Grande Coalizione. Magari fosse così. Invece, a parte la constatazione (logica, non ideologica) che ci vuole molto coraggio nell’attribuire la credibilità necessaria per realizzare questa transizione a chi porta la più grande delle corresponsabilità del fallimento di questo quindicennio, le cose stanno diversamente. Ciò che si sta profilando è il passaggio dal “bipolarismo armato” al “bipartitismo disarmante” (nel senso che fa cascare le braccia), cioè a un sistema politico basato su due “non partiti” figli dei gazebo – uno padronale, populista, che predica la “democrazia plebiscitaria”, totalmente sprovvisto di cultura e storia politica tanto da immaginare di far cadere un governo raccogliendo le firme dei cittadini; l’altro non meno cesarista, che ha eletto senza alcuna regola codificata il suo leader prima ancora di avere gli iscritti e che nasce ripudiando la storia da cui è venuto e le radici su cui è germogliato – che trovano le ragioni del loro incontro consociativo non in una comune analisi delle condizioni di declino e di degrado in cui è piombato il Paese (per colpa loro) e di conseguenza nella convergenza su alcune scelte strategiche da compiere, bensì nel comune interesse a imporre una legge elettorale e uno schema istituzionale ancor più maggioritario e leaderistico di quello fin qui sperimentato con grave nocumento.

Dunque, altro che proporzionale, altro che sistema tedesco: Veltroni e Berlusconi condividono l’idea di un maggioritario che assegni il premio al partito con più voti e non più alla coalizione, come sarebbe se passasse il referendum – da entrambi fortemente gradito, al di là dell’apparente indifferenza – o che derivi da un mix di meccanismi come quelli sapientemente dosati da Vassallo, che comportano una soglia di sbarramento altissima. E altro che sistema parlamentare “corretto” con qualche goccia di “decisionismo alla Sarkozy”: i due finiscono per promuovere un presidenzialismo “strisciante”, cioè senza quei contrappesi che sono tipici dei sistemi dichiaratamente “forti”, i quali si basano su istituzioni forti guidate da statisti, non su uomini forti (leader populisti). Se poi a questo si aggiunge l’inciucio di potere su quel poco che resta dell’establishment industrial-bancario-finanziario, si potrà anche gioire del tramonto dell’impero prodiano – non sarò certo io a rovinare la festa, anche se non darei affatto il Professore per morto, almeno su questo fronte – ma certo non c’è nulla di cui compiacersi se la (presunta) Terza Repubblica nascerà all’insegna del duo Chavez-Putin nella versione all’amatriciana.

Pubblicato su Il Foglio di venerdì 30 novembre

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