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Public Policy

Due settimane al voto

Siamo tornati indietro

Dalla campagna elettorale solo sparate e banalità. La Terza Repubblica sempre più lontana

di Enrico Cisnetto - 09 febbraio 2013

Siamo tornati in piena Seconda Repubblica. È disarmante, ma è così. La campagna elettorale ci consegna tutto il peggio del repertorio del bipolarismo italico: legge elettorale che assegna la maggioranza a chi non ce l’ha, ma solo alla Camera; contrapposizioni personali anziché di programma; alleanze spurie pronte ad essere ripudiate o comunque modificate il giorno dopo il voto; candidati di scarso valore e che comunque gli elettori non possono scegliere; televisione come unica agorà; promesse immantenibili al limite del ridicolo. E questo pur essendoci stato un governo di discontinuità e pur essendo in campo forze dichiaratamente “anti”, sia nei confronti del vecchio schema bipolare sia addirittura anti-sistema tout court. Il risultato è che da mesi viviamo in una sorta di bolla, di condizione virtuale in cui i problemi che la crisi ci aveva finalmente costretto a guardare in faccia sono stati accantonati, esorcizzati, per lasciare il posto ad una narrazione del tutto irrealistica, per cui pare che la questione che abbiamo di fronte sia quella dell’equità, il cui ripristino passerebbe attraverso la restituzione di ciò che agli italiani è stato tolto sotto forma di tasse. Come se i motivi per cui la pressione fiscale è aumentata – deficit corrente da azzerare, eccesso di debito – fossero venuti meno, e come se non esistesse altra via – taglio della spesa pubblica, uso e valorizzazione del patrimonio dello Sato e degli enti locali – per perseguire egualmente l’obiettivo del risanamento finanziario senza dover strozzare i cittadini.

Eppure le sollecitazioni a tenere gli occhi aperti non mancano: dal rialzo dello spread, che è tornato a quota 300 punti per il timore che in Italia torni inaffidabile, ai dati a dir poco drammatici della produzione industriale, mai così bassa dal 1990, tanto che nei cinque anni della grande crisi (2008-2012) il nostro sistema produttivo ha perso un quarto della nostra muscolatura. Ma i partiti parlano d’altro: come ha scritto in un eccellente fondo del Corriere, Antonio Polito, preferiscono attizzare una guerra fratricida tra corporazioni, pezzi di territorio o addirittura tra italiani con diverse abitudini (chi fuma e chi no, chi gioca al Lotto e chi no), indicando imposte che ne sostituiscano delle altre per acchiappare fette di elettorato, senza il minimo pudore nell’usare il Fisco come arma di acquisizione del consenso (naturalmente sempre in nome della giustizia sociale).

Ora, saremmo ingenui se non concedessimo alla competizione elettorale un certo tasso di propagandismo. Ma da qui a ribaltare del tutto l’ordine delle cose, ce ne passa (troppo). Sia perché gli italiani faticano a credere a chi fa loro mirabolanti promesse, specie se negli anni ha già avuto modo di far vedere cosa è capace di fare – contraddizione che sta regalando a Grillo uno spazio smisurato e, ahinoi, probabilmente un risultato oltre ogni previsione – sia perché quando le urne si saranno chiuse e si dovrà tornare a fare i conti con la dura realtà, meno si sarà parlato di scelte (anche impopolari) da fare e più il Paese sarà di fronte all’alternativa, pessima in entrambi i casi, tra l’impotenza che aumenta il declino e interventi ad altissimo costo sociale. E, a maggior ragione, non intendiamo essere, e neppure apparire, dei qualunquisti che fanno di ogni erba un fascio. Società Aperta, che da sempre si è fatta promotrice dell’incontro di forze e personalità a matrice riformista che il sistema politico ottusamente contrappositivo colloca su sponde opposte e in posizioni minoritarie, nel proporre il superamento della fallimentare stagione inaugurata nel 1994 non può certo essere sospettata di disfattismo. Se lo fossimo, disfattisti, inviteremmo a votare Grillo, e non ci passa neppure per l’anticamera del cervello di farlo.

Ma il tema della costruzione di un nuovo sistema politico, in cui i partiti si disfano e le alleanze si smontano, per poi ricrearsi su basi non più né ideologiche né personalistiche ma distinguendo fondamentalmente i conservatori dai riformisti, rimane intatto come necessità e pure come urgenza. Finora, in vista del voto e soprattutto del “dopo”, nessuno l’ha affrontato, né tantomeno indicato come priorità. Pd e Pdl, per ragioni diverse ma alla fine convergenti, hanno avuto fretta di chiudere l’esperienza del governo Monti e si sono voluti tenere il Porcellum, e inevitabilmente sono così ripiombati nello schema bipolare. Comunque vada a finire alla Camera, nessuno dei due avrà la maggioranza al Senato, e questo li costringerà – se si vorrà dare un governo al Paese per evitargli l’esperienza greca di tornare alle urne 40 giorni dopo – a costruire un’alleanza con il Centro. Il quale, a sua volta, per errori e omissioni, arriva al voto senza avere la credibilità necessaria per rappresentare una vera alternativa capace di rompere il bipolarismo, pur indicando questo come suo obiettivo politico. Mentre tutte le altre forze in campo, o sono alleate di Pd e Pdl, o sono impraticabili per un qualunque sincero democratico e garantista, o sono puramente testimoniali.

Mancano due settimane alle elezioni. Una, la prossima, la concediamo per vedere se a qualcuno viene un’idea che non sia la sparata berlusconiana, l’orgoglio del bonario di Bersani o il tentativo di apparire ciò che non è di Monti. E poi prenderemo una decisione su cosa fare nella cabina elettorale per rendere più vicina, o comunque meno lontana, la Terza Repubblica.

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