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Niente illusioni, la crisi non è finita

Siamo davvero “all’inizio della fine”?

Attenti a non cadere in facili trappole. Piuttosto capiamo quale è la forma della crisi

di Enrico Cisnetto - 27 aprile 2009

Lo sport più praticato, negli ultimi tempi, è quello di far credere che la crisi sia finita, o che perlomeno ne siano terminati gli effetti più pesanti. Ma siamo davvero “all’inizio della fine” della crisi? E’ l’ora di essere più fiduciosi – l’ottimismo, come il pessimismo, è categoria che non mi appartiene – oppure si è usciti solamente dalla caduta libera, per entrare in una lunga fase di stagnazione? O, addirittura, siamo invece alla vigilia di nuove turbolenze, visto che in molti sono convinti, per esempio, che la Borsa sia destinata di nuovo a precipitare dopo una cinquantina di giorni di forti recuperi? Chi ha ragione, dunque, tra “apocalittici” – come il Fondo Monetario, secondo cui la ripresa sarà “lenta e debole” – e chi, come Emma Marcegaglia, prevede una ripresina già a partire da luglio? Tutto sta a capire qual è la forma della crisi. Se trattasi, cioè, di una V, oppure di una U, oppure (speriamo di no) di una L, magari con la base più lunga dell’altezza.

Andiamo con ordine: fautrice del “solo chi cade (precipitosamente) può risorgere (velocemente)” è la Confindustria. O meglio la sua presidente, che pare essersi convinta che la crisi sia a V e che quindi presto ci posizioneremo nella fasce ascendente. Vorrei tanto crederle, ma proprio non ci riesco: se fosse come dice lei, saremmo di fronte ad una crisi solo di natura congiunturale, per quanto grave. Invece, di questa crisi va considerata soprattutto la sua strutturalità: per questo mi sento partigiano della curva a U come lo è l’Fmi, secondo cui l’economia mondiale è intrappolata in una “grave recessione”.

Nel suo rapporto annuale sull’economia, il Fondo ha comunque rivisto consistentemente in peggio le previsioni sul biennio in corso, avvertendo che due degli aspetti più gravi di questa crisi non sono ancora stati risolti: innanzitutto non è stata ancora ristabilita la fiducia – che si tenta di indurre artificialmente facendo credere che il peggio è passato – e poi non è stata interrotta quella spirale negativa che si è innescata tra finanza e economia reale.

Per quest’anno, dunque, l’Fmi prevede una recessione dell’1,3% in termini di pil mondiale, laddove solo lo scorso gennaio continuava a stimare un incremento, sebbene limitato allo 0,5%. E la stabilizzazione del settore finanziario richiederà più tempo di quanto prima previsto: le tensioni proseguiranno anche nel corso del 2010, migliorando solo lentamente quando ci sarà più chiarezza su perdite, attività e titoli di difficile valutazione, iniezioni di capitale pubblico per tamponare i rischi di insolvenza, normalizzazione delle liquidità e della volatilità dei mercati. Le prospettive restano dunque “eccezionalmente incerte”, e la fine del tunnel sembra ancora molto lontana.

Come si vede, la U che serve a raffigurare la crisi non è normale, ma ha una base molto larga. E noi, probabilmente, ci troviamo oggi nella parte più bassa della prima stanghetta. Quello che ci aspetta, è allora un periodo “concavo” in cui raschieremo il fondo del barile della decrescita. Tutto sta a capire quanto durerà: escludendo che possa essere una curva ripida, simile a una V, si tratta di sapere se la U sia così larga da assumere la forma di un catino. Ovvio che più la linea orizzontale-concava sarà larga e più la recessione si farà sentire.

Certamente, molto dipenderà dalla validità dei pacchetti di stimolo che i vari governi hanno messo in atto. E anche qui, non ci sono punti di vista univoci. C’è chi ritiene, come il ministro Tremonti, e io con lui, che il gigantesco deficit spending a cui hanno fatto ricorso i governi – Stati Uniti in primis – sia un errore logico, per quanto comprensibile.

Perché si tenta di curare una malattia – un modello basato sull’eccesso di debito e di leva finanziaria – con altro debito. C’è poi chi, come il presidente del Cnel Antonio Marzano, pensa che sia inutile ricorrere a Keynes, dato che Washington nelle ultime amministrazioni avrebbe già utilizzato un approccio keynesiano, fatto di misure espansive e deficit spending, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Il mio punto di vista è leggermente diverso: premesso che quello statunitense degli ultimi vent’anni sia stato un keynesismo “sporco”, in cui la deregulation abbia fatto venir meno quel fondamentale apporto di uno stato “regolatore” necessario al buon funzionamento del mercato, se consideriamo l’indebitamento patologico degli Stati come una tossicodipendenza, un ulteriore quid di debito per rilanciare investimenti, redditi e quindi consumi, potrebbe essere considerato come un metadone, una droga alleggerita in grado di far campare un organismo fino a che questo non si sarà disintossicato.

Purtroppo, però, non è il caso dell’Italia: qui da noi, il malato-indebitato è talmente debole da non reggere nemmeno una dose di cannabis, figuriamoci di metadone. Basti pensare che con un rapporto debito-pil che è destinato a salire oltre la fatidica cifra del 120% nel 2010, l’Italia si sta allontanando sempre più dagli impegni presi a Maastricht, raddoppiando il fatidico 60% che dal 1992 rappresenta(va) un obbligo (a tempo non determinato, ma pur sempre non infinito).

Tornando alla forma della crisi, il rischio vero è che non ci troviamo né di fronte a una V né a una U. Lo scenario a cui tutti noi tentiamo scaramanticamente di non pensare è quello di una L, segno di una caduta verticale ormai alle spalle, ma con un lungo continuum di stasi che ci aspetta. Uno scenario che ricorda da vicino un caso di scuola molto utilizzato in economia, quello della “trappola della liquidità”, quando cioè nonostante ogni tentativo da parte delle autorità finanziarie di immettere denaro nel sistema economico, le imprese continuano a non investire e i cittadini a non consumare, venendo meno qualunque fiducia nella ripresa.

Un caso che si è verificato in Giappone negli ultimi decenni. E il fatto che proprio l’Italia, insieme col Giappone, sia l’unico paese che già nel 2008 (quando la “lettera scarlatta” della crisi, fosse V, U o L, era solo abbozzata) abbia registrato un pil negativo, è un pessimo presagio per i mesi – speriamo non gli anni – che ci aspettano.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.