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Ripensiamo l’intero impianto dell’eurosistema

Servono nuove regole

Una Maastricht 2 forse ci salverà

di Enrico Cisnetto - 01 marzo 2010

E’ paradossale. L’Europa si è data delle regole ferree, anche se poco rispettate, per mettere tutti gli Stati in riga quando le cose vanno bene, ma non ha previsto alcun meccanismo di protezione quando le cose vanno male. Nessuna rete di sicurezza, nemmeno al cospetto di un possibile default di un membro di Eurolandia. D’accordo che a Maastricht i padri fondatori della moneta unica erano particolarmente ottimisti sul futuro del Vecchio Continente, d’accordo che il patto di stabilità successivamente scritto pensava appunto al consolidamento dell’Eurozona, ma riuscire a non prevedere alcun meccanismo in caso di crisi è davvero una colpa imperdonabile. Tuttavia, ora che il caso Grecia ha aperto un fronte cui nessuno aveva pensato, continuare a non porsi il problema, rende la colpa di oggi ancora più grave di quella di ieri. Perché è scoraggiante vedere che persino i privati si danno regole – l’ultimo è il Banco Santander, il secondo istituto di credito più grande d’Europa, che ha fatto “testamento” mettendo nero su bianco le “ultime volontà” in caso collasso, definendo come liquidare gli asset senza far collassare l’intero sistema finanziario – mentre i banchieri centrali e i capi di Stato e di governo che hanno dato vita all’Eurozona latitano.

Il fatto è che l’unione monetaria è stata costruita su fondamenta traballanti, in bilico tra due diverse tendenze che fin dall’inizio hanno messo a rischio l’intero impianto: da una parte, la voglia di una compagine unita e compatta sotto il segno della crescita e delle scelte politiche condivise, così com’era nella testa di Mitterand; dall’altra, il proposito tedesco di creare un terreno stabile per il commercio europeo, contro le fluttuazioni dei cambi, utile a frenare le svalutazioni competitive (stile lira italiana), nell’ansia di evitare il ripetersi dell’iper-inflazione del marco subìta durante la Repubblica di Weimar, anticamera dell’incubo nazista. A ben pensarci, la moneta unica ha rappresentato il compromesso tra queste due strategie, il modo più facile per appianare le diverse visioni dei due paesi leader. Ma i difetti dell’accordo e delle regole del trattato non sono emersi solo oggi, già all’epoca c’era chi, come il sottoscritto, nutriva dubbi. Peccato che invece di discuterne, si presero a male parole gli euroscettici o eurodiffidenti, apostrofandoli come eurodisfattisti. Si prenda il tetto del 3% stabilito per il rapporto deficit-pil: come giustamente spiega Giacomo Vaciago, il parametro è tarato su due presupposti fallaci.

L’equazione da cui nasce la percentuale si basa su un’inflazione stabile al 2% – livello di guardia stabilito della Bce, sopra e sotto del quale si è andati tranquillamente in questi 18 anni – ed una crescita economica annua stabile al 3%. Difficile credere che un paese possa crescere sempre a questi ritmi, come testimonia la progressione del pil della Germania, leader nell"export prima del sorpasso cinese e della crisi mondiale: dal 2004 al 2007 la sequela è stata 1,1%-0,8%-2,5%-1,3%. Oggi il tetto del deficit è sfondato e la crescita viaggia a passo di gambero. Lo stesso vale per il parametro del debito, che doveva essere ricondotto sotto la soglia del 60%, ma non essendo stato così prima della crisi, ora che gli Stati si sono svenati per fronteggiare la recessione è diventato ben peggio, con la media del debito-pil che viaggia verso il 90%.

Ma la crescita del debito ha messo a dura prova non solo i conti e la credibilità della Grecia, ma anche la tenuta dell’eurosistema. Il primo ministro socialista George Papandreu, eletto l’anno scorso per aver promesso più protezione sociale, si è trovato a dover fronteggiare un profondo dissesto del bilancio pubblico, e ha deciso di mettere in pratica un rigido programma di austerity: in cambio del sostegno – per ora solo su carta – di Bruxelles dovrà dimostrare di essere in grado di portare il disavanzo sotto il 3% dal 12,7% attuale, in soli due anni. Un"operazione doverosa ma per niente facile, visto che il paese era impreparato a questa evenienza e ora rivendica ben altro tipo di politiche, come dimostra lo sciopero generale dei giorni scorsi.

All’indomani del vertice europeo per decidere del sostegno alla Grecia, alcuni sondaggi pubblicati sui quotidiani ellenici sembravano testimoniare l’appoggio dei cittadini a politiche di “lacrime e sangue”, pur di sanare la disastrosa condizione delle finanze. Ma o erano sbagliati quei sondaggi, o da allora la situazione è cambiata radicalmente: sta di fatto che il consenso sembra mancare e siamo di fronte, forse per la prima volta da quando esiste l’euro, ad un governo che deve scegliere tra gli imperativi di Bruxelles – che paiono minacce di un cane che abbia ma non morde, visto che l’unica sanzione possibile, e neppure questa codificata, è l’espulsione dal club dell’euro – e i problemi di consenso dei suoi cittadini, e dunque a ben vedere di sopravvivenza. Se a questo si aggiunge che le politiche dei singoli Stati non sono più la chiave per risollevare l’area euro, visto che il modello di stampo tedesco basato sulla spinta dell’export è messo in discussione dalla nuova realtà dell’economia globale post-crisi, ce n’è abbastanza per suonare l’allarme. Anche perché senza un cambio di strategia il debito pubblico elevato potrebbe diventare la regola, non l’eccezione. E non solo in Europa, visto che è cresciuto il debito americano e sta letteralmente esplodendo quello giapponese, che non smette di crescere da due decenni e secondo le stime del Fondo Monetario dovrebbe essere arrivato al 218% del pil.

Sarà dunque opportuno che i maggiori leader europei si assumano il compito di convocare una Maastricht 2, nella quale non solo rivedere le regole “stupide” e inserire quelle mancanti, ma soprattutto ripensare la filosofia generale e l’intero impianto dell’eurosistema. Prima che sia troppo tardi.

Pubblicato da Liberal

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