Telecom e Infostrada
Senza rete
Ecco perché il governo dovrebbe mettere mano al problema delle telecomunicazionidi Enrico Cisnetto - 05 luglio 2013
Quella di un accordo tra Telecom e H3G e più in generale con il gruppo cinese Hutchison Whampoa sembrava una prospettiva interessante. Ma ieri, dopo una fase di contatti, il cda di Telecom ha deciso di archiviare la pratica. Peccato. Pazienza. Ora, però, rimane da affrontare il tema del riordino del settore delle telecomunicazioni, alla luce di alcune questioni di fondo irrisolte. Le principali sono tre. La prima, e più importante, riguarda l’infrastrutturazione in fibra ottica dell’intero paese: nell’epoca del cloud computing, dei social network multimediali, della web-tv, delle videoconferenze, di banda larga e larghissima c’è più che mai necessità.
Ma l’Italia è un terreno difficile per questo genere di infrastrutture: cablare costa, e non ci sono soldi pubblici; richiede snellezza burocratica, che non c’è. Insomma, siamo maledettamente indietro, nonostante lo sforzo meritorio di Metroweb (che però è concentrato solo dove c’è domanda) e gli investimenti di Telecom (limitati da bilanci che non sono più quelli dei tempi in cui le tlc erano galline dalle uova d’oro). Collegato a questo c’è il tema, e siamo alla seconda delle questioni di fondo, delle rete Telecom, il cui scorporo – che doveva già essere fatto al momento della privatizzazione – può rappresentare l’occasione per cambiare il contesto di mercato. Telecom, per bocca di Franco Bernabè, dice che occorre stabilire nuove regole sulla base sulla base del quadro regolatorio europeo, e che questo deve essere fatto prima della separazione della rete. Ha ragione. Ma tra le regole da normare ci sono anche le condizioni tariffarie, che devono consentire di realizzare nella telefonia fissa la stessa dinamica concorrenziale che si è determinata, a beneficio di tutti, nella telefonia mobile. E qui siamo alla terza questione cruciale: il costo dell’unbundling, cioè dell’affitto che i concorrenti di Telecom devono pagare per accedere al cosiddetto “ultimo miglio”. Adesso è di 9,26 euro al mese per ciascuna linea, una cifra che ha di fatto soffocato i player – nel 1997 le licenze assegnate erano 132, ora gli operatori si contano sulla dita di una mano, tanto che poco meno del 70% del mercato del “fisso” è in mano a Telecom (nel “mobile” la quota dell’ex monopolista è della metà) – e ha indotto l’amministratore delegato di Wind, Maximo Ibarra, ad annunciare che se l’Agcom non interviene la sua Infostrada, che detiene circa la metà del restante 30% del mercato del “fisso”, sarà costretta a chiudere. Ora, è evidente che ciascuna azienda persegue il suo interesse, e dunque non è Telecom che deve concedere uno sconto – si parla di un euro in meno a linea, neanche il 10%, che significherebbe una settantina di milioni – ma è l’autorità che regola il mercato a valutare la congruità dell’unbundling e le sue conseguenze in termini di concorrenza. E se non lo fa, si assume una pesante responsabilità.
È evidente, però, che la coperta è corta: se gli altri operatori soffrono, Telecom nel 2012, a fronte di 30 miliardi di ricavi, ha registrato una perdita di 1,3 miliardi e ha un indebitamento finanziario che fatica a comprimere sotto i 28 miliardi. Dunque, non c’è da scherzare, tanto più che la capitalizzazione di Borsa della società è scesa a una dozzina di miliardi, e l’assetto azionario non è proprio dei più stabili. Per questo il tema è anche politico: se spetta all’Agcom applicare con imparzialità le regole del gioco, il governo non può sottrarsi alla responsabilità di definire gli obiettivi del gioco. Anche perché l’unico soggetto che può rendere possibile lo scorporo della rete Telecom è Cdp, che risponde al Tesoro. Qui, purtroppo, scatta il riflesso condizionato che negli ultimi anni ha tenuto banco: siccome c’è il mercato, la politica non c’entra. Errore. Cui solitamente si accompagna quello – altro vizietto italico – di impicciarsi di nomine e altri mercanteggiamenti vari.
Le telecomunicazioni sono un’infrastruttura determinante per la modernità del Paese e quindi per la sua capacità competitiva. Non possiamo “lasciar fare” e sperare che la somma dei comportamenti aziendali sia magicamente virtuosa in termini di interesse generale. No, bisogna definire qual è l’interesse generale in questo campo e trarne una strategia conseguente. Altrimenti, come insegna la storia di Telecom dalla privatizzazione – anzi, a partire proprio da quella – in poi, si rischia di passare dalla grandeur del “piano Socrate” della Stet di Ernesto Pascale, falciato come se fosse l’ennesima speculazione delle vecchie Partecipazioni statali, alla tabula rasa anche di quello che nel frattempo siamo comunque riusciti a costruire. Con il wi-fi che non funziona e il collegamento internet che è maledettamente lento, proprio mentre su quegli strumenti dovremmo costruire la tanto agognata ripresa, non si va lontano.
Ma l’Italia è un terreno difficile per questo genere di infrastrutture: cablare costa, e non ci sono soldi pubblici; richiede snellezza burocratica, che non c’è. Insomma, siamo maledettamente indietro, nonostante lo sforzo meritorio di Metroweb (che però è concentrato solo dove c’è domanda) e gli investimenti di Telecom (limitati da bilanci che non sono più quelli dei tempi in cui le tlc erano galline dalle uova d’oro). Collegato a questo c’è il tema, e siamo alla seconda delle questioni di fondo, delle rete Telecom, il cui scorporo – che doveva già essere fatto al momento della privatizzazione – può rappresentare l’occasione per cambiare il contesto di mercato. Telecom, per bocca di Franco Bernabè, dice che occorre stabilire nuove regole sulla base sulla base del quadro regolatorio europeo, e che questo deve essere fatto prima della separazione della rete. Ha ragione. Ma tra le regole da normare ci sono anche le condizioni tariffarie, che devono consentire di realizzare nella telefonia fissa la stessa dinamica concorrenziale che si è determinata, a beneficio di tutti, nella telefonia mobile. E qui siamo alla terza questione cruciale: il costo dell’unbundling, cioè dell’affitto che i concorrenti di Telecom devono pagare per accedere al cosiddetto “ultimo miglio”. Adesso è di 9,26 euro al mese per ciascuna linea, una cifra che ha di fatto soffocato i player – nel 1997 le licenze assegnate erano 132, ora gli operatori si contano sulla dita di una mano, tanto che poco meno del 70% del mercato del “fisso” è in mano a Telecom (nel “mobile” la quota dell’ex monopolista è della metà) – e ha indotto l’amministratore delegato di Wind, Maximo Ibarra, ad annunciare che se l’Agcom non interviene la sua Infostrada, che detiene circa la metà del restante 30% del mercato del “fisso”, sarà costretta a chiudere. Ora, è evidente che ciascuna azienda persegue il suo interesse, e dunque non è Telecom che deve concedere uno sconto – si parla di un euro in meno a linea, neanche il 10%, che significherebbe una settantina di milioni – ma è l’autorità che regola il mercato a valutare la congruità dell’unbundling e le sue conseguenze in termini di concorrenza. E se non lo fa, si assume una pesante responsabilità.
È evidente, però, che la coperta è corta: se gli altri operatori soffrono, Telecom nel 2012, a fronte di 30 miliardi di ricavi, ha registrato una perdita di 1,3 miliardi e ha un indebitamento finanziario che fatica a comprimere sotto i 28 miliardi. Dunque, non c’è da scherzare, tanto più che la capitalizzazione di Borsa della società è scesa a una dozzina di miliardi, e l’assetto azionario non è proprio dei più stabili. Per questo il tema è anche politico: se spetta all’Agcom applicare con imparzialità le regole del gioco, il governo non può sottrarsi alla responsabilità di definire gli obiettivi del gioco. Anche perché l’unico soggetto che può rendere possibile lo scorporo della rete Telecom è Cdp, che risponde al Tesoro. Qui, purtroppo, scatta il riflesso condizionato che negli ultimi anni ha tenuto banco: siccome c’è il mercato, la politica non c’entra. Errore. Cui solitamente si accompagna quello – altro vizietto italico – di impicciarsi di nomine e altri mercanteggiamenti vari.
Le telecomunicazioni sono un’infrastruttura determinante per la modernità del Paese e quindi per la sua capacità competitiva. Non possiamo “lasciar fare” e sperare che la somma dei comportamenti aziendali sia magicamente virtuosa in termini di interesse generale. No, bisogna definire qual è l’interesse generale in questo campo e trarne una strategia conseguente. Altrimenti, come insegna la storia di Telecom dalla privatizzazione – anzi, a partire proprio da quella – in poi, si rischia di passare dalla grandeur del “piano Socrate” della Stet di Ernesto Pascale, falciato come se fosse l’ennesima speculazione delle vecchie Partecipazioni statali, alla tabula rasa anche di quello che nel frattempo siamo comunque riusciti a costruire. Con il wi-fi che non funziona e il collegamento internet che è maledettamente lento, proprio mentre su quegli strumenti dovremmo costruire la tanto agognata ripresa, non si va lontano.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.