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Public Policy

La fine della politica della “concertazione”

Senza rappresentatività

Siamo al colmo di una crisi di governance e al trionfo del tutti contro tutti

di Davide Giacalone - 04 ottobre 2011

Confindustria non rappresenta più l’insieme delle imprese italiane. Ha sempre faticato a rendersi interprete degli interessi delle piccole e medie aziende, che sono il tessuto fitto e fin qui resistente del nostro sistema produttivo, dando piuttosto voce alle esigenze dei grandi gruppi. Ora, con l’uscita di Fiat e Fiat Industrial, perde anche questa caratteristica. I sindacati confederali non rappresentano da tempo i lavoratori, visto che solo una minoranza vi è iscritto e gli iscritti sono perlopiù pensionati.

Quasi venti anni d’insanabile contraddizione fra la Costituzione vigente e i sistemi elettorali (che pretendo d’essere) maggioritari, quindi fra un’architettura proporzionale e parlamentare e una realtà maggioritaria e presidenziale, hanno tolto rappresentatività anche alla politica. Se oggi si votasse il partito di maggioranza relativa sarebbe quello degli italiani che non si riconoscono nelle scelte esistenti. Tutto questo seppellisce la politica della “concertazione”, che presuppone istituzioni forti e corpi intermedi vitali.

La contestazione di Sergio Marchionne a Emma Marcegaglia è chiara: l’articolo 8 del decreto governativo introduce flessibilità nel mercato del lavoro, nel rispetto dei diritti dei lavoratori, e sebbene non sia ancora sufficiente è però assurdo che industriali e sindacalisti corrano a firmare un accordo per neutralizzarlo. Quel documento, come qui sostenemmo subito, è l’esatto contrario di quel che dice d’essere: un sodalizio per la conservazione dell’inconservabile. Dopo di che si può ben sostenere che Marchionne si smarca anche perché, da tempo, sta esponendo i motivi in base ai quali potrebbe uscire dall’Italia per trasferirsi nel mondo reale, ma l’obiezione non toglie valore alcuno alla forza di quelle parole.

La contraddizione fra parole e fatti, nella disgraziata stagione che viviamo, si misura anche a proposito della lettera che la Banca centrale europea ha inviato al nostro governo. Dapprima, a carte coperte, era la dimostrazione che l’attuale esecutivo non è all’altezza e che ce ne vorrebbe uno tecnico e determinato, per far le cose che si devono fare. Poi, reso pubblico il contenuto (nel quale abbiamo ritrovato le nostre parole e le nostre proposte), sinistra e tanti commentatori caduti dal pero si sono accorti che il governo, effettivamente, non aveva fatto il dovuto, ma tutti loro erano avversari strenui dei provvediementi sollecitati, oppure tartufi che corrono a nascondersi, per non doverne parlare. Infine, a completamento della capriola, la lettera invocata come liberazione è divenuta un oltraggio alla sovranità nazionale. Affinché non continui l’oltraggio alla ragione, e la tortura alla nostra pazienza, rimettiamo le cose in ordine.

La sovranità nazionale è già stata, in gran parte, ceduta. Vale per molti aspetti, anche militari, e vale per la materia monetaria: i trattati di Maastricht sono cessione di sovranità. Il punto è che, a differenza di quel che avviene in altri settori, qui non si capisce bene a chi sia stata ceduta e, in assenza di un qualche cosa che possa definirsi “governo europeo”, la guardiania dei conti è esercitata dalla Bce. Né potrebbe essere diversamente, dal momento che, sempre in assenza di quel governo, viene chiamata a investire in titoli di singoli debiti pubblici.

Quindi, occorre distinguere due livelli, uno interno e l’altro esterno. Sul primo abbiamo il dovere di procedere in fretta e mettere in atto quei cambiamenti che consentano al nostro sistema produttivo (imprese e lavoratori) di respirare. Il governo ha fatto troppo poco, i tanti che si oppongono non chiedono di più, ma sempre altro e di meno. L’altro resta indefinito, quando non ridicolo, il di meno non è consentito. Sul piano internazionale il governo dovrebbe porre la questione al centro di un incontro europeo, anticipando il momento in cui la speculazione sugli spread divenisse insostenibile, come anche opponendosi a che la cessione di sovranità sia fatta a favore di altri Paesi, anziché d’istituzioni dell’Unione.

Sono due passaggi indispensabili e, al tempo stesso, totalmente politici. Quel che abbiamo davanti agli occhi è un governo che stenta e ruzzola, accompagnato da opposizioni che vaneggiano. Ora abbiamo anche parti sociali non rappresentative. Il tutto con dei fenomeni incapaci d’altro che dire: ci vorrebbero un governo bello e protagonisti d’alto profilo. Quando li sentite dire roba di questo tipo sapete già chi scartare. Siamo al colmo di una crisi di governance e al trionfo del tutti contro tutti. Le vie d’uscita ci sono, ma non passano per il regolamento dei conti e il desiderio d’annientamento reciproco.

Pubblicato da Libero

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